1961 Confessioni di un vecchio alpino - Associazione Nazionale Alpini Sezione di Conegliano

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1961 Confessioni di un vecchio alpino

1961
CONFESSIONI DI UN VECCHIO ALPINO
Fiamme Verdi Ottobre 1961 di Nino Dalla Zentil

Penna d’alpino e penna di scrittore son qualità difficilmente coesistenti o, per meglio dire, di raro incontro.
Alpini che scrivono ce ne sono parecchi (e fanno bene a farlo) ma per conseguire la qualifica di scrittori bisogna saperne masticare di letteratura
E bisogna inoltre possedere una sensibilità, un’acutezza di osservazione, una potenza di assimilazione delle sensazioni e di riconversione delle stesse sul foglio che bianco attende davanti, in misura eccezionale ed inconfondibile.
Il nostro socio Dott. Nino Dalla Zentil ha queste possibilità integrate da una solida e continuata cultura umanistica.
Nato a Conegliano, Nino Dalla Zentil è medico-chirurgo nella città natale, scrittore e poeta ormai affermato, Vice Presidente dell’Associazione degli Scrittori Veneti, Deputato provinciale: è anche Ufficiale alpino ed ha voluto gentilmente riservare a «Fiamme Verdi» una serie di scintillanti ricordi che vanno dall’esperienza goliardica a quella alpina.
La goliardia, purtroppo scaduta attualmente, costituisce una vicenda quasi propedeutica alla vita alpina della quale ha in comune la fondamentale gioiosità della giovinezza con un sottofondo di preoccupazioni, di fatiche, di aspirazioni ed ideali che vengono raggiunti e superati con l’aiuto di una volontà cosciente e tenace.
Leggiamo quindi con diletta queste prime «confessioni» che troveranno seguito nei prossimi numeri: al cappello goliardico Nino Dalla Zentil sostituirà il cappello d’alpino, due tra i più belli cappelli del mondo che tanto si rassomigliano nella foggia e nella baldanza.
Con sbalzi e disarcionate la giovinezza caracollava simile a cow-hoy nella stramba impresa del rodeo. Rido se mi vengono in mente gli episodi più comici del periodo che corre fra il 25 e il 31. Padova era percorsa da brividi di rinnovamento la sua gente, avviata a trasformarsi in borghesia mercantile e industriale, cominciava a uscire dal chiuso d’un moralismo vagamente quacquero. A ciò si deve se s’andava diffondendo una tal quale tolleranza per le estrose biricchinate di quel mondo goliardico.
A me, discendente da famiglia che da secoli aveva trovato modo di vivere con piccoli commerci (mio nonno curava una cartoleria con annessa legatoria; mio padre altrettanto) e che doveva guardare all’università, se mai ci pensò, come a esclusivo club di aristocratici in cappa e spada, l’arrivo a Padova e l’ingresso al Bo furono memorabili avvenimenti. Varcando il maestoso portale, guardandomi intorno dal cortile recinto di doppio loggiato irto di stemmi, nell’andirivieni di austerità accademiche con barba e solini alla diplomatica, mi tremavano le gambe per reverenziale timore convinto d’essere alfine riuscito a penetrare nei ricettacoli dell’umano sapere.
Mi accasai in via Vescovado da attempata zitella i cui miti occhi esprimevano, oltre la rassegnazione al male del cagnuzzo incrostato di rogna, deluso amor materno, desiderio di quiete fra immagini sante e rosari. La camera, che dividevo con un amico d’infanzia studente d’ingegneria, ampia non meno di una piazza d’armi, apriva tre finestre a piccoli pogginoli sulla piazzetta antistante. Si rincasava tardi, non prima della mezzanotte, e ci si spiombava dal sonno quando il sole occhieggiava a perpendicolo e sollecitava le narici il grasso odor delle zuppe. A due passi, quattro gradini sotto la strada, s’apriva la trattoria di Gigio, omiciattolo a botte, che accudiva alle pentole in maniche di camicia, col fiasco a portata di mano, scaricando rumorosi venti senza chiedere preventivi permessi né postume scuse. Il piatto d’obbligo con tre lire al pasto era il lesso di pollo e la clientela quella che il Pinelli amava disegnare ai crocicchi della suburra: venditori ambulanti, peripatetiche, studenti a corto di spiccioli. A una cert’ora, con soffocato scalpiccio entravano i vecchietti della vicina casa di ricovero; e chi raccattava dal pentolino cucchiaiate di brodicchio, chi si sedeva attorno la stufa di cotto accollandovi il fazzolettone su cui il macuba aveva tracciato bizzarre fioriture. Rimasi di stucco il giorno che trovai la porta sbarrata e ne chiesi ragione al ciabattino che aveva bottega lì accanto. «E Gigio?». «In gattabuia!». «Oh bella e perché ?». «Pollicidio per strangolamento, ma di merce sgraffignata».
Col passare del tempo feci congrega raccogliendo tipi del mio stampo, di varie nazionalità, ché allora la città ospitava parchi studenti stranieri, la più parte ebrei: uno smilzo poeta polacco traduttor di classici italiani; Menenio Bortolozzi, quondam violinista oggi anatomo-patologo all’ospedale di Treviso; un filosofo ungherese ; il trevigiano Davide Ronfini, acuta intelligenza portata a compor musica, temuto per la battuta di spirito che modiglianizzava ai malcapitali i tratti caratteristici; il veneziano Del Gobbo del terz’anno di medicina, gigante tagliato alla moschettiera con baffi e pizzo, che saettava dagli occhi un poco strabici bonaria malizia, celebre per le trame che ordiva in barba ai gonzi: famosa la confessione notturna al priore di Sant’Antonio giustificata da urgenti e gravi problemi di coscienza, finita con la restituzione di una sciabola, tratta di sotto al ferraiolo, capitatagli a seguito di pericoloso scherzo fatto a ufficiale dell’esercito. Di giorno s’andava a zonzo per ampi spazi d’aria e sole chiacchierando a non finire; di notte s’andava al cinema oppure, ridotti al lumicino, clerici vagantes post litteram, declamavamo poeti crepuscolari nei caffè del centro al fine di scroccare qualche bevuta. Però non c’erano ore che uguagliassero quelle del lunedì pomeriggio quando si calava in periferia e nelle sale da ballo ci s’accapigliava con i barbieri prima di riuscire a strappargli le ragazze. Erano per lo più sartine o cameriere e a vero dire preferivano a noi, certo per solidarietà di classe, le teste imbrillantinate che diffondevano intorno sorrisi al dentifricio e olezzi di barbieria.
Di quando in quando noi di medicina s’andava anche a lezione. Non per erudirci, s’intende, ma ad attirare sulle nostre fisionomie l’attenzione dei docenti sì che ne tenessero conto il giorno del giudizio. E tutti gli stratagemmi tornavan buoni. Per esempio: il vecchio Bertelli con la sua parlata toscana si accingeva a descrivere le ossa della faccia, supponiamo il mascellare? Dai primi banchi, presi d’assalto dopo strenua lotta, lo si preveniva chiedendogli con la possibile grazia: «Maestro, ci parli del forellino che porta il suo nome». In verità era stata l’unica scoperta d’un cinquantennio di indagini anatomiche, ma il poveruomo non sapeva resistere a sì affettuose insistenze e, dopo paterne occhiate in faccia all’interrogante, finiva con l’esaudirlo. Il gioco ora fatto.
Tutt’altra cosa la lezione di botanica. Il professor Gola, alto, rigido, occhiali a stanghetta, barbetta a punta, entrava allo scoccar delle quindici, deponeva il cronometro sul tavolo, e, nell’aula surriscaldata qualunque fosse la stagione, dava fondo al messale con cadenze liturgiche, senza interrompersi mai, neanche per soffiarsi il naso. Va da sé che l’ambiente s’andava saturando a poco a poco di soporiferi miasmi: qualche palpebra s’abbassava, qualche testa cadeva. M’accadde un giorno di non farcela: protetto dalla schiena del vicino m’appisolai sul banco, né alcuno mi disturbò fino a che il ronfio non soverchiò la litania; allora il buon Gola s’interruppe, la qual cosa equivaleva a invertire l’orbita dei pianeti; esplorò intorno con occhio severo e, scoperto il colpevole, «Fermo» disse allo zelante che aveva fatto il gesto di scuotermi, «non si turbano i ritmi fisiologici». E l’avvenimento destò scalpore nell’ambiente universitario, non tanto per l’improntitudine di quel russare quanto per l’interruzione insolita che determinò.
Di certo riusciva più interessante la materia zoologica. Vi contribuivano la promiscuità con la facoltà di farmacia, che allineava alcune graziose gallinelle, e la personalità di Enriques. Scienziato, scrittore, pittore, la vita gli si concentrava nella vastissima fronte da cui sembrava zampillassero idee come getto di fontana. Il resto era minuto e diafano né gli aggiungeva gran che la zazzera alla nazzarena lasciata crescere a bella pasta quasi segno d’indipendenza o spregiudicatezza. Anche la voce tenuissima sembrava venisse da lontananze deuteronomiche.
Enriques faceva il paio con l’altro israelita, Terni, ordinario di istologia, che finì suicida a causa dei resistenti dopo essersi salvato a stento dalle persecuzioni dei nazisti. Per intelligenza, cultura, dignità, entrambi superavano di gran lunga la media dei cattedratici del tempo: esemplari del processo selettivo svoltosi attraverso i millenni fra varietà rabbiniche di altissimo valore. E che fosse dovere «ariano» proteggere quella «razza pregiata» lo dedussi allora, in contrasto con le teorie del Rosemberg, tenendo poi fede al principio anche quando il farlo minacciò di pregiudicare la mia integrità somatica.
Conviene qui non dimenticare che la turbolenza della goliardia in quegli anni aveva origini lontane e, mi si passi l’aggettivo, patriottiche. Forse vi contribuiva anche un pizzico di ismi: anticonformismo, modernismo, attivismo, specificazioni tutte del movimento vociano e del futurismo marinettiano soprattutto vi fermentava l’inquieta amarezza dei tipacci che, usciti dalla lunga guerra e ripresi gli studi, passavano disinvoltamente d’una in altra facoltà senza ritrovar mai orientamento d’idee e fermezza di propositi. Ne ricorderò uno, il Pacchioni, ex ardito dal fierissimo ci piglio, fuori corso da almeno dieci anni, sempre pronto a capeggiar tumulti. In qualunque parte s’agitasse la maretta egli capitava a proposito e ci diguazzava come nel suo elemento naturale. Non che accadessero gravi cose:
tutt’al più erano scioperi per sessioni straordinarie d’esame o colluttazioni in sordina con i questurini per la solita incompatibilità di carattere; ma talvolta la maretta mutava in tempesta e in tal caso ne dava il segnale la campana del Bo con suono lento, cupo, solenne, che sembrava dilagare sopra la città annunziatore di sinistri eventi. A quel suono gli studenti correvano a darsi man forte, prima a rivoli poi a torrenti, come i valligiani ai rintocchi della campana del fuoco. Poteva anche succedere che la faccenda si mettesse a male sul serio e allora ci pensava il Bo, protetto dall’antico diritto d’asilo, ad accoglierli tutti mentre, costrette al di là delle vietate soglie, le forze dell’ordine inghiottivano amaro, fatte segno da sberleffi o a gesti non proprio scurrili se intesi nel loro chiaro significato apotropaico.
Un giorno la campana del maleficio fece cadere i primi rintocchi e con la velocità dei segnali radio per l’ampiezza dell’etere i «sembra» e i «si dice» propagarono la voce che un polacco avesse recato offesa alla storia d’Italia. Si può commettere crimine peggiore contro si veneranda peccatrice? D’altronde è superfluo parlare di abbaglio quando tra studenti e guasconi corrono sicure equivalenze e le fantasie facilmente eccitabili vedono leoni dove in effetti si tratta di pacifico pascolo di somari. Più di un Tartarino in buona fede si agitò nel trambusto, gridando al pericolo; gli altri seguirono. Entrai che il Bo era in subbuglio. Pacchioni, nel mezzo della ressa, arringava gesticolando. Peccato che le parole si sperdessero in mille altri rumori, come foglie nel turbine, ché non mi riuscì di afferrare neanche il senso del discorso; tuttavia, qualche mozzicone di frase arrivava portando il peso di gravi eventi: dimostrazioni... conflitti… guerra. A guardarsi in giro ce n’era d’avanzo per rimanere intimoriti: pugni levati, saettar d’occhi, digrignar di denti. Là per là pensai fosse per scapparci la rivoluzione tanto più che, fatto insolito, stava arrivando trafelato, ballonzolando sulla pancia, Lucatello rettor magnifico, altrimenti soprannominato «Gigio Balon», la cui barba da cappuccino già si protendeva oltre la balaustra come la mano di Gesù sull’acque tempestose del lago di Tiberiade. «Studenti, io vi esorto alla calma». Non andò oltre; cacciata dalle grida di «abbasso» la barba si eclissò, il tumulto schiumò sul Corso, prese a salire verso Prato della Valle tra fragor di saracinesche e fuggi fuggi di curiosi. L’ordine era di filare al consolato di Polonia; ma giunti alla vasta piazza, dove le statue degli antichi patavini guardano dall’alto coll’espressione stupefatta e immobile delle facce di pietra, ci fu chi testimoniò che l’unico consolato della regione lo ospitava Venezia, «Bazzecole!» commentò Pacchioni «che s’aspetta? Su, poltroni, a Venezia !»; e fu un ripercorrere a perdidfito il Corso verso la stazioncina di Santa Sofia, Il trenino era là, pronto, sbuffante, grazioso come le cose miniate. Fu preso d’assalto. Sventolio di fazzoletti e schiamazzi salutarono l’avvio
che nelle giovanili immaginazioni riesumava le crociate in Terrasanta contro gli infedeli. Veramente le terre che attraversavamo lungo la riviera del Brenta non erano ignote: l’una dopo l’altra si scoprivano tra i parchi le ville dai nomi famosi che sembrano ricordare in decrepitezza gli splendori del passato, e vedevamo nell’acqua pigra del fiume rispecchiarsi la malinconia di Dolo, di Mira, quasi in attesa di un mondo che mai più ritornerà. A Malcontenta uno sbarramento di carabinieri fermò il treno. Già, non si opponevano a che si proseguisse fino a Mestre, che s’annunciava da lontano con le sue ciminiere, a piedi: sottile astuzia intesa a ricalcare la tattica degli Orazi, e che ci fregò smentendo a un tempo l’errata opinione che il volgo ha dell’arma fedele. Infatti alla stazione di Mestre, dove si arrivò alla spicciolata, due robuste lanterne ci presero sotto braccio e ci ficcarono zitti zitti in sala d’aspetto, sotto buona guardia. Sul far della notte si ridiscese a Padova, liberi sì ma stanchi, intontiti dal sonno, secchi come baccalà di Norvegia.
Intanto i giorni e i mesi passavano e a quel vivere, che tuttavia non
destava particolari rimorsi, trovavo modo d’aggiungere ore sentimentali. Era quando scappavo al villaggetto, sperduto nell’infinita pianura, a incontrarei nelle penombre della sera la maestrina dall’occhio dolce, dalla soave scriminatura fra i neri capelli. Nell’incantesimo di quella voce, accarezzato da mani che suscitavano brividi di desideri e delicatezze epidermiche, abbracciai, furiosamente baciato, intravvedevo le supreme categorie dello spirito, mi sentivo andare verso inaccessibili e sereni approdi.
« Noctem peccatis et fraudibus obice nubem» avrebbe detto malignamente Orazio. Finì comunque dopo un anno, da buoni amici. Né ci si rivide mai più.

(continua)
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