1963 Natale di guerra 1915 - Associazione Nazionale Alpini Sezione di Conegliano

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1963 Natale di guerra 1915

1963
NATALE DI GUERRA 1915
Fiamme Verdi Dicembre 1963 del gen. Emilio Faldella

Era il primo Natale di guerra. Il battaglione Exilles era a Monte Rosso, appollaiato sull’orlo del breve pianoro roccioso dominato dalla vetta del M. Nero e sull’orlo opposto era la trincea austriaca, lontana, sulla destra, cinque o sei metri dalla nostra. Fra l’una e l’altra era una siepe di reticolati e cavalli di frisia che si andava infittendo ad ogni nevicata. Dietro a noi la montagna strapiombava con una parete di alcune centinaia di metri.
In una cavernetta dalle pareti rivestite di legname c’era un deposito di viveri intangibile che costituiva la preoccupazione dell’aiutante maggiore, il buon Copetti, e faceva commettere non pochi peccati di gola. Pensate: una quarantina di prosciutti appesi ad altrettanti ganci, casse di scatolette di carne, altre di zucchero in zolle, altre ancora di marmellata. Erano i tempi spartanissimi del rancio ridotto ai minimi termini: carne in brodo la mattina e «tubi» alla sera, collosi se asciutti e lignei se in brodo.
Mai s’era visto tanta generosità della Sussistenza: i prosciutti poi, davano l’impressione di essere nel regno di Bengodi. Però erano in- tangibili ed ogni sette giorni una commissione ne doveva constatare l’ottima conservazione e compilare un solenne verbale. Il Natale s’avvicinava. Era stato preannunziato l’arrivo da Torino di un carico di panettoni, per iniziativa del sindaco Teofilo Rossi, che non dimenticava di essere capitano di complemento del 3° Alpini, e l’annunzio aveva messo in azione le fantasie per l’organizzazione di un Natale come si deve.
I prosciutti ci pesavano sullo stomaco, peggio che se ne avessimo fatto indigestione. Non eravamo stinchi di santi e il pensiero di fargliela a quelli della Sussistenza che stavano al caldo a Drezenca, ci solleticava. Ne parlammo al buon Copetti, friulano dal largo faccione, tutto compreso della responsabilità di consegnatario. Finì per stringersi nelle spalle: «Per me... se il dottore firma il verbale».
Il dottore era Porta, di Lonigo, il dottore della 84° compagnia che il 16 giugno era con Arbarello e Picco. Consultò il collega Alberico, di Vercelli, che tormentò la barbetta nera e diede il suo assenso. Aveva fatto la Libia con gli alpini di Lequio, Tassoni e Cantore e mugugnava che gli toccava andare in un ospedale e invece.., sempre con gli alpini! (Cari amici, tutti scomparsi, tutti lassù, nella schiera delle Penne Mozze!).
Bando alle malinconie e torniamo ai prosciutti.
La commissione procedette alla visita e il 24 dicembre fu stilato con tutte le regole un verbale dal quale risultava che ben nove prosciutti, per pura combinazione i più grossi, erano avariati e quindi ne era stata ordinata la distruzione ecc. ecc. Due per compagnia ed uno per il comando di battaglione, accuratamente affettati, e pertanto «distrutti» servirono il giorno di Natale a tutti gli alpini per un saporito antipasto, mentre il verbale viaggiava con portaordini verso il Comando del Gruppo Alpino A, che era poi il comando del 3° Alpini.
Il giorno di Natale trascorse senza una fucilata. Era quella una guerra fra gente come si deve: quando c’era da raccogliere feriti, i portaferiti uscivano con bandiera bianca e nessuno sparava. Anche il Natale fu santificato, come per tacita intesa, non sparando. Vien fatto di pensare, dopo tanti recenti orrori: O gran bontà dei cavalieri antichi!
Poi l’indomani ripresero le fucilate e di tanto in tanto una bomba a mano, di quelle lenticolari, di cui si accendeva prima la miccia col cerino, e verso sera si scatenò una tormenta di quelle che pare livelli- no le montagne.
L’indomani mattina, in un chiarore lattiginoso che consentiva la visibilità a pochi metri, un alpino d’un posto di corrispondenza giunse trafelato: «ALARME! A j’è 1’ Coronel !»
Fu peggio che se avesse gridato che c’erano gli austriaci.
Il colonnello era Jacopo Cornaro, quello che pareva fatto d’acciaio e non di carne, che teneva rapporto volteggiando attraverso il tavolo in perfetto stile da atleta, adoperando quei suoi polpacci muscolosi ed enormi come fossero molle compresse. Era sempre in moto, notte e giorno, nel fango e nella neve e compariva dappertutto fremente, agitato da una vitalità inesauribile, e al soldato che meritava un premio consegnava solennemente un caricatore «da sparare contro il nemico» o una cartolina in franchigia o una caramella alla menta.
Emerse tutto solo dalle folate di neve turbinante, in cima al sentiero che era soltanto più segnato dalla corda tesa, che il gelo aveva indurito e la tormenta aveva avvolto da una spessa coltre di ghiaccio. Era solo, perchè i Suoi accompagnatori, disgraziati, erano rimasti sfiatati per via.
Era infagottato nel cappotto che era tutto una crosta di ghiaccio, ed un elmo di ghiaccio pareva il passamontagna che copriva capo e volto e non mancavano appese al fianco le due borse portacarte, le due pistole e la baionetta che costituivano il carico abituale.
Comparire ed urlare: «Voglio vedere i prosciutti!» fu tutt’uno. Non dico che allibimmo, perchè eravamo già ghiacciati di dentro e di fuori, ma certo non ci sentimmo a nostro agio. Nessuno fiatò. Entrò nella baracca che serviva da comando di battaglione: un buco con intorno tre piani di giacigli e in mezzo un tavolo con le solite candele infilzate nei colli di bottiglia e ruggì: «Voglio vederli!»
Il dottor Porta si fece coraggio: « I giera pien de veemi, sior».
Il colonnello pestò i piedi, furioso, e quando ebbe chiarito che si trattava del medico che aveva constatato il misfatto dei prosciutti «da distruggere» gli rifilò gli arresti «per non averne curato la conservazione» ed estese il provvedimento all’aiutante maggiore che tremava come una foglia.
Speravamo che gli arresti avessero placato la tempesta. Niente affatto. «Dove li avete messi?», domandò. E allora qualcuno disse: «Li abbiamo buttati nel vallone».
Il colonnello si placò, come se la grossa questione fosse risolta. e «Benissimo», disse calmo e risoluto, «andiamo a prenderli. Qua le corde, subito !».
Vennero le corde e fummo designati in tre a scendere nel vallone a recuperare i prosciutti. La farsa stava assumendo aspetti da tragedia. Come scendere con quella tormenta giù per la parete sulla quale incombeva una enorme cornice di neve ghiacciata? Tirammo un sospiro di sollievo, quando, venute le corde, il colonnello incominciò ad allacciarne una intorno a sè. Cornaro non era uomo da far correre rischi senza partecipare alla impresa. Ci legammo e solennemente uscimmo dietro a lui dalla baracca. Il colonnello andò avanti, tastò la neve, si inoltrò e, rotta la superficie ghiacciata, sprofondò fino alle ascelle, proprio sull’orlo del burrone.
Sbuffava come una locomotiva e attraverso il passamontagna uscivano buffi di fiato condensato. Ci vollero dieci minuti per disincagliarlo.
Si piantò sulle gambe tozze che parevano colonne e ordinò: «Ci andrete quando la tormenta sarà cessata».
Respirammo. Eravamo come statue di neve fra i turbini della tormenta; non si udiva che il fruscio dei ghiaccioli trasportati dal vento.
«Troppo silenzio, qui!» urlò. «Siamo in guerra o sotto i portici di Torino?».
Veramente ci sembrava di non essere affatto sotto i portici di Torino, ma chi avrebbe osato farglielo notare ?
«Come mai non si spara?», domandò, inquisitore.
Il comandante di battaglione azzardò: «Quando c’è tormenta gli austriaci stanno nei baraccamenti».
«Andiamo a stanarli!», urlò il colonnello. Partì verso il posto di vedetta più avanzato e noi dietro. Si sporse col busto al di sopra del parapetto e si mise a sparare colpi di fucile attraverso la siepe di cavalli di frisia, a lanciare bombe a mano... Silenzio. Gli austriaci non risposero.
«Ma questa non è guerra!», urlò, indignato.
Non volle più sentir nulla, nemmeno l’offerta di un caffè caldo. Imboccò il sentiero in discesa, sui quale le sue stesse orme erano da gran tempo cancellate e si perdette nei turbini della bufera.
Così finì la faccenda dei prosciutti di Natale, perchè, ritornato il bel tempo, non si parlò più di scendere nel vallone a recuperarli, e la conferma degli arresti non venne mai.
Era un brav’uomo, il terribile Cornaro.
Gli alpini commentarono: « Col a l’è n’ Coronel en gamba! A l’a pa beivula! ». (Quello è un colonnello in gamba! Non l’ha mica bevuta!).
(da «Penna Nera delle Grigne» della Sez. A.N.A di Lecco)
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