1964 Il sergente nella neve - Associazione Nazionale Alpini Sezione di Conegliano

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1964 Il sergente nella neve

1964
IL SERGENTE NELLA NEVE
Fiamme Verdi Giugno 1964

«Il sergente nella neve»
di Mario Rigoni Stern - Edizioni Einaudi 1962

Non avevo letto nulla di Mario Rigoni Stern fino a quando un amico, il quale ebbe modo di scorrere su «Fiamme Verdi» alcune mie recensioni su libri scritti da alpini, mi passò recentemente «Il Sergente nella neve».
E’ questo uno de molti libri scritti sulla campagna di Russia, ma dovuto alla penna di uno scrittore e una recensione è quindi assai più ardua rispetto ai consueti resoconti presentati da reduci aventi una preparazione più modesta sotto profilo letterario. Io sono poi il meno idoneo ad esprimere un giudizio in quanto la mia penna è più abituata a scrivere cifre che parole e, in particolare, perchè la campagna russa non l’ho vissuta che attraverso le testimonianze scritte a verbali degli altri.
«Il sergente nella neve» parla però di alpini ed essendo io un alpino, sebbene postbellico, ho sentito il dovere di leggermi il libro come sento il diritto di dire che esso non mi piace.
La sovraccoperta del volume mi dice che la fatica letteraria di Mario Rigoni Stern è stata premiata con il Viareggio Opera prima; una recente seconda affermazione il libro l’ha conseguita con l’assegnazione del Premio Bancarellino per la migliore opera per ragazzi e una sua nuova edizione nelle vetrine dei librai reca una fascia che lo presenta a genitori ed educatori ma una raccomandazione che non mi sento di condividere.
Elio Vittorini così si esprime in merito al lavoro letterario di Mario Rigoni Stern: «Forse l’unica testimonianza del genere da cui si riceva una impressione più di carattere estetico che sentimentale polemico, o insomma pratico. Una piccola «Anabasi» dialettale, la definiremmo. Rigoni non testimonia per rendersi utile a una causa o a un’altra, ma per il semplice gusto che prova, in comune coi poeti, a testimoniare».
La validità di opere del genere è infatti quella di testimoniare dei fatti umani, di documentare avvenimenti complessi, di esprimere giudizi di notevole riflesso generale attraverso le sensazioni scritte dell’autore; la correttezza letteraria diviene quasi secondaria, specie in libri dedicati ad una guerra, rispetto alla consistenza dei fatti che lo scrittore deve illustrare.
Il libro di Rigoni Stern contiene pagine sublimi e di una scioltezza stilistica ragguardevole e quindi nulla si può eccepire a tale proposito, specie da parte mia che scrivere posso assai modestamente; ma è spiacevole che doti letterarie così pregevoli sian servite a lievitare gli aspetti disumani che una disgraziata vicenda bellica ha determinato, senza dosarli adeguatamente con le incontestabili virtù che hanno pure trovato modo di emergere nella stessa tragedia.
Non voglio e non posso negare nulla di quanto Rigoni Stern scrive ché non pongo dubbio alcuno sulla verità delle sue affermazioni, ma accettare la sintesi che pur involontariamente l’autore fa del nostro esercito in quella fase della guerra, vorrebbe significare il ripudio di tutte le testimonianze, almeno quelle lette e sentite da me, che altri reduci ci hanno recate.
Rigoni Stern fa caratterizzare la campagna di Russia da un vortice di bestemmie d’alpini più che di pallottole; quasi sembra che le bestemmie siano state l’unico linguaggio e sostentamento delle Penne Nere d’Italia in Russia; son rare le pagine in cui il racconto non sia sottolineato dal blaterare degli alpini Bodei, Meschini, del tenente Cenci e di quel campione in materia che fu (e forse è) Antonelli.
Con la media di una volta ogni cinque pagine, l’Autore «testimonia» anche nei dettagli le virtù blasfeme dei compagni, affermando che sentire l’alpino X (non riporta il nome) il quale «neanche tirava il fiato per bestemmiare» era meglio che andare a teatro, ricordando l’Antonelli che bestemmiava tutto quello che poteva bestemmiare e il ten. Cenci che «bestemmiava in modo gentile con voce armoniosa e da salotto», e infine che alla sera — nel caposaldo — prima dicevano il rosario, poi cantavano e poi bestemmiavano.
E’ ridicolo pensare che gli alpini in guerra solo recitino rosari e cantino, ma che Cristo fosse stato tra gli Alpini (come dice il titolo del libro di Don Gnocchi e che bisognerà pure che mi decida a leggere) solo per ricevere una quotidiana e abbondante razione di insulti come il «sergente nella neve» vuol far intendere, mi sembra perlomeno assai azzardato.
Speriamo che le famiglie dei Caduti in Russia non rimangano con l’ossessione d’immaginare che il proprio alpino sia morto inveendo contro l’Eterno, e consideriamo l’altro doloroso aspetto dell’opera di Rigoni Stern.
L’allucinante tragedia di Russia ha determinato una «chiarificazione» (brutta parola che mi sembra però idonea) tra i componenti dell’esercito, rendendo palesi debolezze e virtù degli uni e degli altri, la resistenza fisica e psichica di ognuno; l’esasperazione dei corpi e delle anime ha «scoperto» quegli ufficiali idonei solo a pompose parate e gli spacconi capaci soltanto di far la voce grossa in piazza d’armi, ma ha anche rivelato eroismi innumerevoli che han confermato il valore già provato dei migliori e persino di umili ufficiali e soldati che nessuno avrebbe potuto immaginare capaci di ribellarsi al destino.
Un mio buon amico, di carattere un po’ chiuso e melanconico, votato solo ai libri e alla sua fisarmonica, venne spedito in Russia «in servizio di prima nomina»; sul Don ha guidato con successo decine di contrassalti in un giorno e quando cadde falciato dalle mitragliatrici si trascinò lasciando dietro una spaventosa corsia di sangue e visceri fino a raggiungere un russo che sparava e al quale piantò la canna della pistola in un occhio.
La Russia ha rivelato anche eroismi come quello del mio amico - decorato di medaglia d’oro contro ogni previsione della vigilia - senza contare i molti altri atti di valore il cui ricordo non è giunto sino a noi.
Mario Rigoni Stern non ha filtrato gli errori di pochi attraverso questi numerosi esempi di virtù militare che largamente riscattano oasi d’ignavia, ponendo egli invece in evidenza gli episodi in cui ritenne di intravvedere negli ufficiali i maggiori difetti di vigliaccheria e di impreparazione, di superbia e di pazzia, di ubriachezza e avarizia.
Rigoni Stern non risparmia al lettore nemmeno gli episodi dell’anonimo alpino che si ferisce apposta per rientrare dalle linee, dei due pavidi fanti della «Vicenza», dei soldati dell’autocentro che equipara ai pidocchi, degli alpini del «Vestone» che fingevano d’essere morti per non andare all’assalto, e di Reverberi che chiede di ufficiali
questi che non si fanno vedere; l’autore attribuisce inoltre la qualifica di imboscati prima e di sbandati poi a quanta più gente può.
Dalla lettura del libro si ricava insomma un’impressione di amarezza e di profondo disagio che non si riscontra in altre pubblicazioni pure sincere e poco reticenti nelle valutazioni, e che contrasta con il giudizio unanime che lo stesso avversario ha reso al nostro Esercito e in particolare agli Alpini.
Basta d’altronde scorrere il numero dei riconoscimenti meritati dai reparti e dai singoli per constatare la parzialità documentatrice del libro di Mario Rigoni Stern. Poiché, come ripeto, non m’azzardo a contestare i fatti riportati dal volume in questione ma l’effetto negativo d’assieme che se ne ricava.
Spiegandomi meglio dirò che un volume di guerra deve necessariamente sintetizzare (salvo un ben chiaro richiamo alla sua limitatezza testimoniale) un giudizio globale dei fatti citati; ogni testimonianza (se non compresa in una miscellanea che la riunisca ad integrative segnalazioni) è un documento che può turbare il lettore comune. Se un italiano dovesse leggere solo il libro di Rigoni Stern, non potrebbe che ricavarne un giudizio letterariamente favorevole all’autore ma ingiustamente negativo per il nostro esercito.
Io stesso sono un italiano che legge assai poco e al quale non piace certo la retorica che vuol far credere solo appassionante e magari romantica una guerra; ma ritengo di essere un italiano medio che non confonde una guerra schifosa con la generosità irripetibile di un esercito vigliaccamente inviato a svenarsi in Russia e che, nonostante ciò, nella steppa ha dimostrato un eroismo sovrumano di fronte al quale anche i più incalliti antitaliani possono levarsi il cappello.
MARIO ALTARUI
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