1964 Non maltrattiamo il cappello alpino
1964
Non maltrattiamo il cappello alpino
Fiamme Verdi Febbraio 1964
Un recente numero di «Fameja Alpina» della Sezione di Treviso riporta un saggio richiamo che il caro amico Manfren rivolge ai propri soci con l’articolo «Cappellini da gagà e penne... (censura)» — censura che io interpreto: penne da onzar culi — e che tratta un problema invero preoccupante: l’anomalo fenomeno dei cappelli e delle penne (censura) con i quali certi alpini (pochi ma ugualmente troppi) si presentano alle nostre adunate.
L’articolista denuncia infatti:
«In una recente adunata scarpona abbiamo rilevato “alcune note stonate”:
— “bocia” con certi cappellini in testa buoni, se fossero di ceramica, per essere usati come, vasi da notte;
— penne (di cappone? capita l’antifona? n.d.r.) lunghe a non finire e portate solo per dare fastidio, o addirittura “accecare” qualcuno;
— un “bocia” con uno dei predetti stupidi cappellini e con una delle anzidette stupide penne recante la scritta “Negli anni più belli i giorni più tristi” ».
Bruno Manfren comincia col porre un fondato dubbio che quest’ultimo «alpino» abbia veramente fatto l’alpino, e non si preoccupino ulteriormente i lettori perchè l’articolista gliene ha scritte di considerazioni da far sprofondare sotto terra il proprietario di quella penna blasfema.
L’articolo di Fameja Alpina chiude con un energico suggerimento:
«Veci capigruppo sorvegliate: se è il caso un po’ di “cunicéra” alle “tube” è più che salutare, trasformatevi ancora in quei caporalmaggiori di un tempo che tanto hanno lavorato per far entrare negli “imbranati” lo spirito dei veci alpinassi » (ecc.: omissis).
Punto e a capo.
E tanto per essere onesti batto il «mea culpa» perchè l’articolo di Manfren un po’ mi tocca.
Io ho fatto una naja «strana»:
una specie di servizio di leva da richiamato, dopo sfidata una condanna alla fucilazione (solo al petto), dopo meritati possibili riconoscimenti (non concretizzati perchè mai ebbi in tasca una tessera di partito), dopo aver rinunciato ai grado di ufficiale in altro Corpo pur di andar con gli Alpini ad usare come gavette le scatole di latta dei biscotti degli americani.
Giunsi quindi a un battaglione addestramento e mi diedero un bel cappello col quale uscii al più presto dalla caserma inventando una necessità di «servizio»; poco dopo fui tentato di aggiungere, tra nappina e penna, un piumino bianco che al soffio sembrava la folta pancia di una gatta.
Grande fu la delusione (vecchio come mi sentivo di esperienza «guerriera» ma non ricordando di essere ugualmente un «gamel» qnuando la ronda (alpina, eh) mi fece sbattere sull’attenti in piena piazza della città; avrei divorato quel najone firmaiolo di caporalmaggiore come una forchettata di spezzatino o per lo meno lo avrei atteso «al reggimento» per fargli divorare i gradi (con sedici particole di comunione alpina) come per l’altro caporale che deliberatamente mi spostò il gavettino per propormi cinque giorni («soddisfatti») di consegna.
Il capo-ronda non esitò a farmi levare il piumino «ad osservanza di quanto prescrivono i regolamenti» e, dopo la consueta sbattuta (dei miei) tacchi, mi lasciò vergognoso come un ladro.
In caserma ero un fetente: ho collezionato una invidiabile serie di c.p.r e quando i Superiori non erano tanto solleciti nel punirmi ne facevo richiesta scritta per via gerarchica (uno de Vice Presidenti della Sezione di Treviso ne sa qualcosa): in camera di punizione comandavo io il «silenzio» in deroga a quello regolamentare. Quegli otto-dieci «soci» che avevo a rotazione in galera mi ubbidivano e continuavano a volermi bene anche fuori.
Se c’era qualcosa di... interessante fuori delle mura della caserma non esitavo a dimenticare di essere «consegnato», ma dimenticavo anche la libera uscita quando c’era bisogno della mia opera; lavoravo quindi come una bestia per fare il mio dovere, ma ero un fetente lo stesso.
Gli alpini mi chiamavano «comandante» e, utilizzando una licenza «per gravi motivi di famiglia» partii per andare a trecento chilometri da casa inalberando sul cappello una lucentissima penna bianca.
Vacca miseria! Un capitano (è di Treviso e ancora vivo) mi bloccò nell’atrio di una stazione invitandomi a far diventare nera la penna bianca.
Sottilizzai sul fatto che un pelo della penna era scuro, che altre penne con due «n» per cambiarla non ne avevo e potei quindi fare il bullo
ammirato (con penna bianca) per tutta la licenza; però, per l’onore della penna, a Bologna poco mancava che facessi fuori a botte uno di quelli che, oltre alle penne bianche e nere, disprezzano le stellette in genere e i valori che esse rappresentano.
Le vicende del mio cappello furono ancora innumerevoli: amavo profondamente il mio cappello d’alpino ma non lo sapevo portare.
Sono stati i «veci» a farmi ragionare meglio. Avevo una penna di falco che era un amore, dritta come una schioppettata, con una «forcella» ch’era un capolavoro: me la trovai spellata e ridotta a un ramoscello vizzo e allora cominciai a capire.
Compresi al punto di fare l’iraddiddio e rischiare il tribunale quando qualcuno mi fece schizzare il cappello dal capo con una sberla (non lo farà mai più con nessun alpino, ve l’assicuro) e compresi infine che quel capo-ronda aveva ragione a farmi levare il superfluo piumino, che quel capitano mi lasciò andare con la penna bianca (ma col pelo scuro) perchè mi avrebbe costretto a far fuori il primo pennuto che non fosse un’oca e che avessi incontrato per strada.
Fu così che imparai ad amare il mio cappello e a comprendere che il cappello alpino è sì un copricapo di gente scanzonata ma che è soprattutto una Cosa seria; mi resi conto che centinaia di migliaia di alpini son morti con quel cappello in testa; che quel cappello aveva determinato eroismi sovrumani, nascosto ferite orrende, sentito e custodito pensieri semplici ma dolorosi e sublimi di milioni di alpini; e che se esso era prima servito a raccogliere patate, a nascondere mezza pollastra e a far da scodella per il suo assetato proprietario, era alla fine giunto a specificare una croce sopra un’arida coperta di terra italiana o straniera.
Non maltrattiamo quindi questo cappello alpino con l’appiccicarvi sopra mezzo chilo di cianfrusaglie che nulla hanno a che fare con la vita alpina, con penne idiote disseminate di scritte schifose come ragnatele, con una costellazione di stellette che vorrebbero rappresentare i «mesi» di naja (sarebbero un firmamento per i «veci»), con scarponcini che spesso vengono affibbiati da venditori ambulanti intruffolati nelle nostre adunate, con tante altre schifezze che trasformano il cappello in una pattumiera.
Il cappello alpino non è un berretto goliardico che diventa un museo di originalità e spiritosaggini:
io ero abituato a questo e mi ritengo fortunato di aver portato i due più bei copricapo — quello di studente e quello d’alpino — che esistano al mondo; ma essi sono i più belli perchè si differenziano nettamente.
Anche in cerimonie serissime figura bene il berretto goliardico (però la bella goliardia non esiste più ormai) ma il cappello alpino, destinato soprattutto a manifestazioni serie, non può prenderne somiglianza.
Col cappello alpino in testa noi entriamo in chiesa, accompagniamo i nostri morti all’ultima dimora, rendiamo omaggio ai Caduti, sfiliamo dinanzi alle Autorità (e le Autorità ci salutano sull’attenti!); quel cappello lo desideriamo sulla bara quand’è il nostro turno.
E allora io vorrei chiedere a quell’alpino (se tale) che Manfren ebbe l’amarezza di vedere con la scritta «Negli anni più belli i giorni più tristi» e a quei bocia dal cappello ridicolizzato e con le penne che sembrano scope, se lo desidererebbero veramente un cappello così sulla propria bara o se non sia più «espressivo» per loro posarvi il contenuto cui accenna all’inizio Manfren immaginando quei cappelli realizzati in ceramica.
m. a.
Mentre stiamo per passare le bozze alla stampa ci è giunto il recente n. 1 del giornale nazionale L’ALPINO e constatiamo con piacere che il tema è stato trattato da Aldo Rasero con particolare dovizia di validi elementi e considerazioni.
Il nostro artico