1969 Posta dal Congo
1969
POSTA DAL CONGO
Fiamme Verdi Giugno 1969
Il nostro socio Luigi Fabbris - residente presso la Missione Cattolica di Bangadi-Uele, a Kinshasa del Congo - ci ha scritto recentemente una lunga ed affettuosa lettera ringraziandoci per l’invio di Fiamme Verdi e per sfogarsi un po’ con considerazioni che dimostrano il suo continuo interessamento per l’Italia e per la mai dimenticata naja alpina.
Ci comunica di aver apprezzato la rievocazione della M. O. Enea Guarneri, fatta dal nostro Presidente comm. Curto, e la commemorazione del cinquantenario della guerra 1915-18 pure pubblicata su Fiamme Verdi a cura del prof. Altarui.
Luigi Fabbris - che si firma con la precisazione di «alpin paracadutista della Tridentina: mai strak!» - così ci scrive del suo duro ma costruttivo lavoro nella terra africana:
Io qui faccio come gli alpini in tempo di pace: mi dò ad opere di pace. Faccio andar la segheria della missione; non credete che sia una cosa moderna e svedese o canadese che spingete il bottone e il tronco vi scatta via, e sotto un’altra tavola. E’ una vecchia sega svizzera che mi ricorda mio nonno quando lavorava nell’Appenzell e mi fa diventar matto col motore, cinghie, cavi, lame e il demonio dell’inferno; comunque fin che ci sarò io lavorerà. E tutto per lo sviluppo quantunque lento di queste zone al non plus ultra dell’isolamento.
Si, par mi gnent poenta, figadéi, vinaza, canti, adunate, banda: unico mezzo di comunicazione ‘sto «Fiamme Verdi» e anca «L’Alpino» che mi arrivan «puntualmente» con tre mesi di ritardo. Ho anche una Honex ed è inutile dire che son musiche alpine che ne saltan fuori. Seguite con «Fiamme Verdi» ad alimentar quel fuoco sacro che son amor sincero di patria, amor alle nostre montagne di pini e di nevi, ma non so se siamo in molti i malati di quest’amore. Dante una volta fu spinto a dirsi fiorentino per nascita, ma non di costumi. Non vorrei io tornar a casa e trovarmi estraneo in mezzo ad un branco di serve, di traditori deboli, di pekinesi, che Dio non lo abbia mai a permettere. Vorrei ben esagerare in queste mie preoccupazioni (fa riferimento alle riflessioni contenute nella prima parte della lettera e che condividiamo appieno; n.d.r.), ma mi rimetto alle vostre considerazioni dal momento che siete sul posto: e con questo è anche ora di salutarvi; la prossima volta che verrò giù in missione, verrò con qualche libro di canti, con dischi, con un po’ di racconti dei nostri veci, perchè sennò proprio così e qui in terra africana il mio spirito alpino crepa di asma; e poi sempre palme e gnente pini, e un po’ di freddo e neve solo nel frigorifero.
Ora noi dovremmo dare la risposta: ma, caro Amico lontano, cosa può dire di più di un riconoscente, simbolico ma ugualmente memore e beneaugurante abbraccio da parte di tutti noi?