1971 I miei ricordi di Vidor
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I MIEI RICORDI DI VIDOR
Fiamme Verdi Settembre 1971
Sono ormai trascorsi 54 anni dalla prima resistenza che, sulle rive del Piave, le nostre truppe opposero all’invasione nemica.
La gravissima situazione creatasi dopo l’infausto Caporetto non era certo conosciuta dalla maggioranza dei combattenti.
E’ necessaria questa premessa per capire come tutti, o quasi, fossimo all’oscuro di quanto avveniva e principalmente di quello che dovevamo fare, anche se il nostro compito era di resistere a qualunque costo.
Ma con quali mezzi?
Tutto era difficile trovare, ma il nostro più preoccupante tormento era l’estrema limitatezza delle munizioni.
Fin dal 6 novembre 1917 mi trovai nei paraggi del Piave, dì questo fiume che una volta non degnavo nemmeno di uno sguardo, e in considerazione che ero trevigiano iniziai ad ispezionarlo, a fare ovunque brevi relazioni per una immediata difesa resa urgente dal tragico momento.
Sceso con la batteria da montagna da Cima Ombrettola (Zona Marmolada) dovetti allungare il passo per essere di aiuto a qualche ipotetico comando od a qualche superiore che cercavo in retrovia.
I due tenentini, appena conosciutisi, il trevigiano ed il feltrino, forse gli unici ufficiali ivi nativi, andavano alla ricerca di ogni mezzo più idoneo per la difesa del Piave e delle zone limitrofe, spesso in bicicletta od in motocicletta, per noi e per tutti gli altri corpi, spesso sprovvisti di quasi tutto.
I volontari alpini «Feltre», quasi quarantenni, erano muniti del vecchio «81».
Purtroppo, talvolta, la nostra pazienza era al colmo.
Spesso non trovavamo il mezzo celere per il caricamento, o non volevano darcelo ed allora, fuori dei gangheri, sbraitavamo: «Il Piave chi volete che lo difenda se non ci date subito i mezzi indispensabili?».
Oggi queste cose sembrano incredibili od inventate; ma la situazione era così grave e così critica che nessuno può immaginare.
Dove erano gli eventuali elementi di copertura e quell’appoggio di cui tanto si parlava e si poteva sperare?
La testa di ponte di Vidor non doveva essere fine a se stessa; appoggiantesi al Cesen, fino alle colline di Conegliano (adopero le parole del Gen. Giardino), era premessa per un quasi immediato contrattacco degli Alleati, già tra Padova e Vicenza. Non era certo un’illusione, poiché la marcia austro-tedesca, sia pur vittoriosa, risentiva la corsa e l’affanno.
Ma i nostri Alleati sul Tomba e sull’arco del Piave vennero a fine novembre ed ai primi di dicembre, soddisfatti che gli italiani avessero tenuto duro da soli (mercè anche il contributo delle acque) sul Piave e sui monti.
Quando nella notte dal 10 all’11 novembre saltò il ponte di Vidor, da noi poco prima passato, comprendemmo che Cadorna era stato estromesso e che gli Alleati facevano da padroni. Del resto è quel che tocca quando uno tanto perde!
Lascio a chi legge immaginare il nostro stato d’animo nell’abbandonare, dopo averlo strenuamente difeso, quel lembo di terra dal quale speravamo ed intravedevamo la nostra rinascita.
Un esempio del caos? Solo due portaordini, su dodici, riuscirono alla sera inoltrata del 10 novembre (tra Bigolino, San Giovanni e Vidor) a recare quell’ordine tanto chiaro e tanto grave di ripassare il Piave e che era stato redatto sin dal 7 novembre.
Non occorre aggiungere parola a tanto strazio, a tanta sciagura.
Un semplice fatto. Per conoscere meglio la situazione nel pomeriggio del 7 novembre mi decisi di andare da Vidor, in bicicletta, lungo le strade che conducono a Sernaglia, a Pieve, a Falzè. Un silenzio grave e cupo.
Né per via, né nelle case prospicienti la strada, trovai anima viva.
Tutto ciò, purtroppo, era foriero di un immane disastro che non conoscevamo che in minima parte. Finalmente mi inoltrai per un viottolo e dopo tanto girovagare intravidi una persona che mi si avvicinò, un po’ diffidente. Stava portando via generi di sostentamento dalla sua casa, ormai deserta, per andarsene molto più in là. Mi consigliò di ritornare subito indietro perchè il pericolo poteva essere imminente.
Rientrato verso notte, spiegai il tutto e davvero considerammo veritiere e convincenti le terribili notizie ed il disastro veramente immane.
*
Ho detto qualche cosa che è sufficiente per dare un’idea di quella deprecata situazione.
Ora ricordiamo con riverente pensiero ed omaggio tutti i nostri cari, i caduti, i mutilati, i feriti, gli invalidi di qualsiasi genere, nere, anche tutti coloro che in più di mezzo secolo abbiamo perduto, talvolta carichi di pene materiali e morali, non tutte visibili e non tutte, ahimè, capite!
La parola mi si mozza alla gola e forse il mio pianto si confonde con quello dei familiari che tanto ricordano i loro caduti o variamente dispersi in questo lento peregrinare della loro vita.
Desidero ricordare per i vecchi e nuovi soldati, quei partecipanti alla difesa della testa di ponte di Vidor che tanto alto tennero il nome d’Italia e che fu il primo passo della nostra magnifica rinascita.
Eccoli brevemente, succintamente: il manipolo degli arditi, le «fiamme verdi», dell’eroico Polla; i volontari alpini «Feltre», quei veci che ancora nella notte tra il 10 e 1l novembre combattevano sulla collina dell’ Abbazia; i resti dei Battaglioni Alpini «Val Varaita», «Val Pellice», »Monte Granero»; unità di bersaglieri ciclisti; plotoni di mitraglieri; una batteria da montagna in due sezioni.
Poi ebbe inizio il nostro riscatto.
Un prigioniero germanico catturato nei pressi di Bigolino dall’alpino del «Val Pellice», Aspirante Cagnoni, in avanguardia col suo plotone il quale riuscì a deviare con audacia ed astuzia forze preponderanti nemiche.
Ma quanti dei nostri sarebbero da ricordare?
Bene spesso non conoscemmo i loro compiti, e loro gesta, le loro ultime parole.
A noi, pochissimi rimasti, «i fortunati» di ieri e di oggi, il dovere ed il sentimento vivissimo di non mai dimenticare i nostri migliori!
Gerolamo Di Gaspero