1986 Don Carlo Gnocchi
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Don Carlo Gnocchi, cappellano degli alpini, salirà presto agli onori degli altari
Fiamme Verdi Dicembre 1987
Don Carlo Gnocchi, figura carismatica degli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, è per lo più sconosciuto ai nostri giovani: solo ai primi giorni dello scorso mese di Marzo il suo nome è nuovamente apparso su giornali e riviste perché l'Acrcivescovo di Milano, Cardinale Martini, ha annunciato l’inizio delle procedure canoniche per la sua Beatificazione.
Da alpino con una sola Penna, quella del mio cappello, vorrei cimentarmi nel raccontare ai nostri giovani, quello che fu per noi Don Carlo; è una impresa nella quale difficilmente riuscirò, poiché mi manca la seconda penna, quella indispensabile per questo genere di fatiche.
Confido però nella generosità e nella comprensione dei pochi che mi leggeranno e quindi nella loro indulgenza.
Don Carlo era nato il 25 Ott. 1902 a S. Colombano al Lambro, figlio di modesti operai: nel 1925, a 23 anni, fu ordinato Sacerdote.
I primi anni del suo ministero furono tutti dedicati alla gioventù, nella Parrocchia, all’istituto Gonzaga, fra gli universitari.
All’entrata in guerra dell’italia nel secondo conflitto mondiale, vedendo partire tanti giovani suoi amici, divenuti uomini sotto la sua guida, maturò la sua decisione di andare volontario come cappellano; venne assegnato alle truppe alpine ed inviato subito in Albania con la Divisione Julia, Btg. VaL Tagliamento.
Qui riesce subito a farsi amare dai suoi soldati e dai suoi colleghi Ufficiali condividendone in pieno il doloroso Calvrio: dedica tutto il suo amore e la sua vitta ai suoi alpini e, durante uno scontro a fuoco, riesce anche a salvare un Ufficiale Greco rimasto gravemente ferito.
Alla fine delle operazioni su quel fronte il suo reparto viene trasferito in Jugoslavia.
Avendo saputo che tre Divisioni Alpine erano in partenza per la Russia, chiede nuovamente di essere assegnato a quei reparti che più degli altri sarebbero stati esposti alle sofferenze e ai pericoli, rinunciando alla vita relativamente tranquilla e comoda della guarnigione.
Così nel 1942 con la Divisione tridentina raggiunge il fronte orientale e nel Gennaio 1943 si trova coinvolto nella dolorosa e terrificante ritirata dal Don.
Ma sentiamo la testimonianza di un altro cappellano alpino, don Carlo Chiavazza, che nel suo libro “Scritto sulla neve”“ ci riferisce il suo incontro con don Gnocchi dopo la battaglia Nikolajewka:
“La notte del 27 gennaio, le ore di sosta le passai in buona parte assieme a don Gnocchi in un’isba calda e affollata. Dormimmo poco perché avevamo tante cose da dirci o almeno chi aveva tanto da dire era lui, don Carlo, il dolce cappellano dalla vita ascetica meravigliosa e il sorriso buono nel volto smagrito illuminato dagli occhi chiari.
Don Carlo non aveva più, come davanti a Nikolajewka, l’impressionante rassegnazione di chi sta per iniziare il volo verso l’eternità. Era più fiducioso, più disteso e il suo cuore appariva gonfio di riconoscenza verso i due alpini che, secondo lui, lo avevano raccolto dalla neve e salvato da una morte sicura.
“Mi ero seduto un momento ai bordi della pista” raccontava don Carlo “per riposare qualche minuto, mi sentivo sfinito. La colonna mi sfilava davanti e io la vedevo sempre più lontana, sempre più lontana. Mi pareva di trovarmi sotto un cielo dai colori vivissimi e cangianti. Intorno a me s’era fatto attesa e il cuore e tutto il corpo s’adagiavano in un pace riposante, rilassata. Due alpini mi raccolsero bruscamente e senza complimenti mi buttarono sopra una slitta. Se rimanevo là sarei morto”
Don Carlo parlava sottovoce per non disturbare coloro che, allungati per terra, dormivano pesantemente.
“I miei alpini” continuava don Carlo. “I miei alpini sono incantevoli. Li si deve amare per forza come un padre ama i suoi figli. E non perché mi hanno salvato la vita ma perché sono alpini.”
Dopo una lunga pausa, nel buio dell’isba don Gnocchi mi sussurrò: “Si vede che debbo tornare in Italia. Ringraziamo il Signore.” Si raccolse in preghiera con la schiena appoggiata al muro dell’isba.
La mia testa ciondolava, tutti dormivano, un riflesso di luna s’affacciava timidamente sui vetri sporchi della finestra che avevo davanti. La mia testa ciondolava. Ora non vedevo più nulla, provavo la strana sensazione di immergermi in un grande vuoto pallido, in un abisso infinito d’aria vibrante nel richiamo lontano, fuso di mille voci senza volto. Dormivo.
Don Carlo mi svegliò con tocchi leggeri sulla spalla: “Mi senti?”
“Sì, si” risposi.
“La notte sta per finire, sono le quattro.”
“Non hai dormito?”
“Certo, ma senti, vuoi fare la comunione?”
“Cosa dici?”
“Dico, la comunione?”
Mi svegliai di colpo, il buio dell’isba s’era diradato: allungati per terra, sui letti, accosciati, distesi, abbandonati, ufficiali e soldati supini erano immersi in un sonno profondo, animale, ristoratore.
“Ma tu” dissi, “hai con te il Santissimo?”
“L’ho sempre portato con me. Me ne rimane solo un piccolo frammento ma per due basta. Oggi finalmente saremo fuori dal pericolo...”
Don Carlo parlava gustando la gioia di partecipare a un confratello il suo segreto dei giorni tremendi di morte e di eroismo. Portava il Cristo con sé, nella teca d’oro, sul petto, come un’arma, come un trofeo, come il talismano più caro, l’oggetto più prezioso del mondo.
“sempre con noi, ha camminato con gli alpini.”
“Non ti pare bello? Il calvario degli alpini è stato anche il suo calvario. Accoglieva i caduti, confortava i combattenti. Era la mia forza.” Le ultime parole si perdono nel tremolio commosso della voce.
Ci raccogliemmo pochi istanti e assieme recitammo qualche preghiera. Il frammento di Ostia, deposto sulle nostre lingue martoriate dalla sete e dalla neve era talmente piccolo che appena lo si sentiva, ma era il Cristo dei sofferenti e degli eroi, dei deboli e dei forti, dei buoni e dei cattivi, dei vivi e dei morti che sfolgorava nelle nostre anime con improvvisa luce. Nell’isba dell’aria pesante e puzzolente, ai nostri corpi preda dei pidocchi e con gli abiti a brandelli, al nostro cuore paurosamente provato, il Redentore portava l’augurio vecchio e nuovo, la realtà più sconvolgente: lo vi ho amati e resterò con voi, sempre.
Don Carlo serrava il volto tra le mani, immobile con profonda meditazione.
Nonostante la sua fragile struttura e le non buone condizioni di salute, don Carlo sostenuto dalla sua incrollabile fede, è riuscito a superare le disumane fatiche e le sofferenze della ritirata dedicandosi sempre ad aiutare i suoi alpini, a sostenerli con la sua bontà e la sua carità, ad aiutarli e confortarli nel trapasso.
E qui vorrei portare un’altra testimonianza, quella di un ufficiale del 11° artiglieria alpina, Bruno Riosa (autore di bellissimi disegni di vita alpina recentemente comparsi nel nostro periodico “L’Alpino”) che durante la ritirata gli fu spesso vicino, riportata nel volume “Tridentina avanti” di Aldo Rasero:
Lo amavamo ed egli li amava. Gli eravamo amici ed egli ci considerava i suoi migliori amici. Ogni suo atto spirava bontà e questa infinita bontà la riversava prima che su altri su noi.
Alpino fino al midollo era subito penetrato fino all’intimo nell’animo dei suoi soldati riuscendo a leggervi come in un libro aperto. Affratellato ad essi, condivise il sanguinoso calvario che ha stazioni in Albania, Montenegro, Grecia, Croazia, Russia e porta nomi tremendi l’ultimo dei quali Nikolajewka...
Era un sacerdote e perciò l’arma impugnata era il piccolo crocifisso e con esso da valoroso soldato e passato in mezzo all’inferno di fragori, schianti, di bestemmie e agli orrori della guerra.
Mentre infuriavano i combattimenti più accaniti e la morte mieteva da ogni lato, la dove sostare era inutile temerarietà, don Carlo, pallido e fragile come un fiore, si fermava e in ginocchio raccoglieva gli ultimi respiri dei moribondi e porgeva gli ultimi conforti e le estreme parole di amore.
Oh mamme d’italia, mamme di quanti non tornarono, non dimenticate questo piccolo sacerdote, questo grande alpino.
Noi non lo dimenticheremo mai. Lo abbiamo visto chino sui vostri figli e lo abbiamo visto avanzare sulla bianca steppa, macilento, diafano con il Cristo stretto al petto, vivente dimostrazione di quanto può lo spirito di fronte alla forza bruta.
Crollavano i giovani, crollavano i forti. Molti uomini diventavano lupi e meno che lupi. Molti perdevano il coraggio e intelletto, ma tu don Carlo, come una tremula mamma continuavi a splendere e a illuminarci il cammino verso la Patria a verso l’umana dignità.
Quando un malaugurato giorno non ti abbiamo più notato in mezzo alle nostre decimate e sfinite file, non ci siamo meravigliati. Da meravigliarsi sarebbe stato se tu ci fossi. Ti abbiamo pianto e perduto.
A Sebekino il miracolo! Una slitta arriva silenziosa e si ferma davanti all’isba. Due alpini picchiano. “Chi è?” gridiamo. “Don Gnocchi” rispondono. Apriamo. Troviamo don Carlo svenuto. Lo portiamo dentro. Lui rinviene, parla.
Degli alpini che hanno bussato nessuna traccia. Spariti. I nostri dicono: “Erano due angeli...”
Rientrato in patria fu decorato di medaglia d’argento al v.m. per il suo comportamento durante la ritirata con la seguente motivazione:
“Durante quindici giorni di duri combattimenti, in azione di ripiegamento, incurante del pericolo, si portava dove più infuriava la lotta, per porgere ai feriti il conforto della fede.”
Il ricordo dalle sofferenze dei suoi alpini, di quelli che sono morti fra le sue braccia confortati amorevolmente dalle sue parole e dalle sue preghiere lo assilla; particolarmente gli occhi dei suoi alpini morti condizionano la sua vita, gli occhi fermi aperti e pungenti di quelli che erano spirati nel fango dell’Albania e nel ghiaccio della steppa russa, senza nessun conforto, straziati nella carni dopo inumana sofferenze.
E così, per mantenere fede alle promesse fatte agli scomparsi, cominciò a percorrere le vallate delle Alpi per visitare le famiglie di coloro che “erano andati avanti” rendendosi conto di quante miserie, di quante pietose situazioni si erano venute a creare.
Raccolse diversi orfani, ma non soddisfatto, alla prima occasione offertagli da una madre che gli aveva portato un suo figlioletto mutilato di una gamba, raccolse anche i bimbi straziati dai bombardamenti o dai numerosi ordigni di guerra che ogni belligerante aveva disseminato per tutta l’italia. Passò poi anche ad accogliere i figli indesiderati della guerra, i mulatti, dando quindi origine dapprima alla “Federazione pro infanzia mutilata” e in seguito alla “Pro juventute” opera colossale quest’ultima che, con circa 1900 dipendenti provvedeva all’assistenza di circa 25.000 giovani.
Trovò il tempo anche di scrivere un libro, “Cristo con gli alpini”, il cui titolo è così eloquente da non richiedere delucidazioni sull’argomento trattato.
Ma le terribili vicissitudini sopportate, la viva partecipazione allo strazio di tante giovani vite a lui affidate e di tante famiglie che a lui ricorrevano, avevano minato la sua vita: a coronamento di questa, tutta dedicata agli altri, disporrà che le sue cornee siano donate a due ragazzi non vedenti, che risultarono poi essere Amabile Battistella e Silvio Casagrande, ancora viventi e vedenti grazie all’ultimo gesto di amore del grande Cappellano degli Alpini.
Il 28 Febbraio 1956 chiuse santamente il suo viaggio terreno raccomandando agli amici che lo assistevano la “sua baracca ”
Nel trentesimo anniversario della sua morte la Chiesa lo ricorda dando avvio alla sua canonizzazione.
GASTONE BIAGGIO (da “ALPINI MARCHIGIANI”, Notiziario della Sezione A.N.A. delle Marche).