1995 Una divisa una storia lontana
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70 ANNI DI VITA
Una divisa, una storia lontana
Fiamme Verdi Giugno 1995
Guerra e barbarie, da che mondo è mondo, sono compagni inseparabili. Ma proprio nelle guerre fioriscono a volte episodi di grande umanità. Giovanni Drusian di Conegliano, classe 1921, artigliere alpino della Julia, da qualche anno è “passato avanti”. La sua storia ci è stata raccontata dal compagno di prigionia Antonio Padoin: è la storia della divisa di ufficiale russo esposta nella mostra.
«Tutto tranquillo fino ai primi di gennaio, quando i Russi avevano sferrato una grande offensiva e accerchiato lo schieramento italiano. La divisione era stata così chiusa in una sacca sul fronte l'artiglieria teneva bene ma i Sovietici già irrompevano nelle retrovie. Il 16 gennaio era arrivato il drammatico “si salvi chi può” ed era cominciata la strategica ritirata verso ovest, in una pista innevata, senza fine, dove affluivano da tutte le direzioni soldati italiani allo sbando. Il paesaggio era di un grigio sconfortante, il cielo e la terra si confondevano all'orizzonte. La neve calpestata era appiccicosa ma non faceva freddo. il freddo quel giorno gli alpini lo avevano dentro: erano bastate poche ore per incrinare tutte le illusioni, per dissolvere la sicurezza frutto della propaganda di regime, che la vittoria sarebbe stata una noiosa formalità.
Quel silenzio abissale era stato improvvisamente rotto dalla Katiuscia e Giovanni Drusian si era trovato circondato da uomini vestiti di bianco, sbucati da una piantagione di girasoli, che gli puntavano contro il parabellum. Pochi attimi dopo camminava con le mani sulla testa verso alcune isbe, dove arrivava assieme a centinaia e centinaia di altri italiani catturati. Immediatamente perquisito, gli furono sottratti l'orologio e il portafoglio con i documenti. I prigionieri furono incolonnati e Giovanni fece per la prima volta conoscenza con una frase che lo avrebbe ossessionato per giorni e che lo avrebbe accompagnato per tutta la prigionia: «Davài, davài bisteici», (avanti, avanti in fretta). Cominciò cosi quella lunga e terribile marcia che, per quel comando urlato e ripetuto in maniera esasperante, è diventata la marcia del davài. In questa parola c'è tutta la tragedia vissuta da migliaia di italiani prigionieri in Russia. Camminavano ininterrottamente di giorno, la sera si fermavano al centro di un villaggio, ammucchiati come un gregge, sperando invano che qualcuno portasse da mangiare. La notte era lugubre e allucinante: i prigionieri spesso passavano la notte nella stessa piazza, all’addiaccio, venti, trenta gradi sotto zero. In gruppi di tre o quattro si toglievano i pastrani e abbottonandoli l’un l’altro formavano una specie di tenda: dentro stavano abbracciati per non morire di freddo, un freddo che penetrava intenso nelle ossa sì da farli sentire nudi. La fame mordeva lo stomaco e non li faceva dormire. Il giorno dopo ai “davài bistriei” riprendevano la marcia, in silenzio, un silenzio che era fame, sonno e disperazione sempre più cupa Durante il cammino ingoiavano sudicia neve, nell'assurda speranza che questa potesse placare i morsi della fame. E se non bastasse ogni tanto erano costretti dalie sentinelle ad urlare corali “urrà”. Ogni tanto, incontrando qualche civile, chiedevano quanto mancasse al prossimo villaggio. La risposta era sempre la stessa: «piàt, ciciri», (quattro, cinque) ma il villaggio non compariva mai. Era la pietà per i prigionieri il cui aspetto, alla vista della popolazione doveva certamente provocare sentimenti di pena e compassione. Di tanto in tanto qualche ragazza mandava un furtivo saluto ed un melanconico sorriso. Un vecchio con gli occhi lucidi fece capire che gli Italiani erano benvoluti: «ltalíanski koroscid» (gli italiani sono buoni).
Dopo dieci giorni erano arrivati allo scalo ferroviario di una città sommersa dalla neve, dove erano stati caricati su cani bestiame per un viaggio allucinante. Ogni tanto dall'esterno qualcuno attraverso le finestrelle lanciava qualche aringa che veniva minuziosamente divisa. Una porzione irrisoria in confronto alla fame. Tormento ancora maggiore era la sete, che i prigionieri cercavano di spegnere leccando a turno le borchie alle pareti del vagone, incrostate di brina per il condensarsi dell'umidità intema. Disperazione e rabbia impotente, crisi depressivi e monologhi, pianti e silenzi, imprecazione contro Dio e il Duce, ma ogni sera il rosario, intonato dal cappellano militare. Quando dopo dodici giorni le porte si erano aperte, quelli scesi dai carri bestiame non erano più uomini ma ombre barcollanti sulle gambe anchilosate.
Al campo di smistamento Giovanni subì l'ennesima perquisizione da parte di una brutale sentinella che, irritata per non avergli trovato più nulla addosso, non esitò a depredarlo di tutto ciò di cui era vestito, lasciandolo completamente ignudo. Giovanni Drusian, già distrutto nel fisico e nell'anima, spogliato di tutto ed ora anche della dignità, rimase inebetito ed impietrito dal gelo. La sua sorte sembrava segnata: di che avrebbe potuto vestirsi se anche i cadaveri che giacevano nel campo erano stati “spogliati” di tutto? Giunse in suo soccorso una giovane donna bruna che aveva assistito alla scena. Si chiamava Naida. Era la figlia del comandante del campo e lo coprì con una delle calde divise felpate del padre. Quella sarebbe diventata la sua divisa per i tre lunghi anni di dura prigionia prima di lasciare il campo per il lager in Siberia, Giovanni promise a Naída che, a guerra finita, sarebbe un giorno ritornato per sposarla: era la sua convinta riconoscenza verso colei che lo aveva salvato dal baratro.
Drusian non rimise più piede in terra russa. Ebbe un'unica figlia: NAIDA. Custodì gelosamente quella divisa, che gli aveva salvato la vita, fino al giorno in cui la consegnò a Luciano Barzotto: perché di questo fatto non andasse perduta la memoria.
G.D.M.