1996 Annuale incontro dei reduci a Cargnacco
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IL SACRARIO DI CARGNACCO
Annuale incontro dei reduci di Russia
Fiamme Verdi Dicembre 1996
Don Carlo Caneva, giovane cappellano del 5° alpini, battaglione Edolo, fu catturato nel gennaio '43, durante uno dei tanti combattimenti che costellarono la ritirata e per tre anni e mezzo conobbe le bolge dei lager di Stalin. Non appena rimpatriato, fu destinato alla parrocchia di Cargnacco, passino a pochi chilometri da Udine, dove cominciarono ad incontrarsi gli scampati al naufragio russo.
Don Caneva ha una idea, una missione da compiere: costruire un sacrario in memoria di coloro che non sono più tornati. La prima pietra viene posta nel settembre del 1950, il tempio viene inaugurato nel settembre del 1955.
Ma il sacrario è vuoto perché l'Unione Sovietica non permette ancora agli Italiani di tornare sui luoghi delle battaglie per dissotterrare le spoglie dei nostri soldati.
I resti del primo caduto italiano rimpatriato arrivano in una cassetta di legno il 2 dicembre 1990. Sul sagrato c'è Don Caneva attorniato da una folla di reduci e familiari. La sua missione è compiuta. E' stato determinate l'intervento del generale Gavazza, commissario generale di Onorcaduti, che ha trattato con russi, ucraini e bielorussi, ripercorrendo le rotte dell'ARMIR ed ha portato a casa i resti di migliaia di caduti. Ora, molti di essi riposano nel camposanto del paese natale.
L'annuale incontro dei reduci di Russia, che si tiene a Cargnacco ogni terza Domenica di settembre, è particolarmente sentito dagli alpini del Gruppo San Fior, essendo consistente in questo comune il numero di coloro che, dopo aver combattuto in suolo sovietico, tra mille vicissitudini riuscirono a rientrare in patria. La cerimonia si svolge quest'anno all'esterno del tempio, che non sarebbe in grado di accogliere la folla strabocchevole giunta soprattutto per la celebrazione del 50° anniversario del rientro dei prigionieri dalla Russia e della costituzione dell'UNIRR. Rivolgendosi ai superstiti di quell'orrendo sfacelo, il presidente dell'associazione, Giuseppe Foli, ricorda che l'opera intrapresa da Don Caneva sta per essere completata: «... Ora che abbiamo vinto la lotta per portare a dormire i nostri fratelli sulla propria terra possiamo morire in pace». Ed anche oggi i resti di quattro caduti verranno inumati all'interno del tempio.
Letto un telegramma di saluti del Presidente della Repubblica, il rappresentante del Governo, l'on. Viller Bordon, sottosegretario alla Cultura, ricorda come un paese che non riscriva attentamente le pagine bianche della sua storia, che non ricordi e non conosca, non ha la forza di nazione unita. Consegna quindi nelle mani del soprintendente del tempio la medaglia d'oro al V.M. al Caduto Ignoto di Russia.
I "W l'Italia" si sprecano. Non si può ignorare, infatti, che, proprio oggi, non lontano da qui qualcuno cercherà di ammainare per sempre il tricolore, quello stesso vessillo bianco, rosso e verde che avvolge le quattro piccole casse ai piedi dell'altare, quella stessa bandiera in nome della quale giovani di 20 anni andarono a morire in una terra sconosciuta per una causa che non era la loro.
Per i reduci questa è una giornata particolare. Si rinnovano saluti, abbracci e ricordi tra ex commilitoni. «Non dovevano mandarci a combattere contro un popolo così buono», dice uno. E c'è una velata tristezza, sia per i tanti che 50 anni fa non sono più tornati, sia per gli amici che il tempo si è portato inesorabilmente via.
Italo Zanette non è un reduce come gli altri. Egli appartiene alla razza rara, anzi rarissima, di coloro che riuscirono a ritornare vivi dall'inferno dei lager sovietici. La sua è una storia inenarrabile, fatta di marce disumane e privazioni di ogni genere.
Italo ci racconta che, da quando è tornato dalla Russia, non ha mai detto, di fronte ad un piatto di minestra, «l'è trista». Non sopporta che vadano gettate le briciole di pane e ha sempre mangiato, anche se sazio, tutto ciò che i figli lasciavano nel piatto. E’ la psicologia di coloro che hanno tanto sofferto la fame.
Ogni tanto sogna di ritornare dalla Russia su un treno, che però, causa ritardi e intoppi vari, non arriva mai o comunque mai prima del suo risveglio. Nel 1965, una radiografia ha rilevato la presenza, mai avvertita prima, di una scheggia nella gamba, ricordo della sparatoria avvenuta il giorno della sua cattura. Ma dolorose schegge sono rimaste anche nell'anima e nella memoria. Incapace di grandi emozioni, Italo è un uomo tollerante, quasi indifferente.
Dai russi, forse, ha imparato un po' del loro fatalismo e non si dispera nelle avversità della vita.
In Russia sognava di tornare a casa e vivere dieci anni, per cui è felice di ciò che la vita gli offre e considera regalato ogni giorno che passa.
Ci racconta che, durante l'allucinante viaggio verso il lager nel carro bestiame, attraverso la steppa russa, tra un'avemaria e l'altra del rosario intonato dal cappellano, aveva fatto voto a Sant'Antonio che, se fosse tornato vivo dalla prigionia, si sarebbe recato a piedi in pellegrinaggio alla basilica di Padova.
Dopo tre anni dal rientro in Italia ritenne fosse giunto il momento di onorare il suo impegno con il santo e, partito di buon'ora, raggiunse a piedi la città di Padova.
In un confessionale della basilica raccontò ad un frate della sua spaventosa prigionia, del voto fatto e delle gambe che più non lo reggevano dalla stanchezza.
Il confessore lo rassicurò che, per uno che era tornato vivo da quell'inferno, il viaggio di andata a piedi era più che sufficiente. E così Italo se ne tornò a Conegliano in corriera.
Gianfranco Dal Mas