2002 La catastrofe del Vajont
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MONTAGNA INSIEME
Fiamme Verdi Giugno 2003
La catastrofe del VAJONT
Prima di riportare la testimonianza del nostro socio CESARE ANTIGA, vogliamo scrivere un “prologo”, cioè chi era e chi è il protagonista.
Cesare Antiga nel 1958 decide di lasciare la vita militare nelle Truppe Alpine, si congeda con il grado di tenente, ed intraprende una nuova attività, quella del gelatiere. Parte per la Germania, il primo anno come dipendente, poi in proprio. E’ un lavoro stagionale da marzo ad ottobre, che permette però di vivere tranquillamente anche negli altri mesi invernali. Verso la metà di ottobre fa ritorno a casa.
Nel 1962 si unisce in matrimonio con una signorina di San Vendemiano, ove trasferisce la sua residenza da San Pietro di Feletto. Nel 1963 riparte per la Germania, ma questa volta desidera che il tempo passi in fretta, poiché per novembre è prevista la nascita del primogenito, e così sarà padre.
E’ proprio la gravidanza della moglie che offre il “tassello” principale che permetterà di costruire il mosaico del racconto. Infatti, a seguito della telefonata fatta dalla moglie, in clinica per il parto prematuro non previsto, il 3 ottobre Cesare decide di anticipare la chiusura del locale e far ritorno in Patria.
Ecco il suo racconto:
“il 9 ottobre 1963, di buon mattino parto dalla Germania. Con me in macchina ci sono mia sorella Silvana e due fratelli miei dipendenti Francesco ed Anna. L’altra mia sorella Maria Vittoria rimane in Germania con l’altro locale. Nel pomeriggio, a metà percorso telefono a mia sorella rimasta in Germania e la assicuro che il viaggio procede bene e che sarò a casa verso le 23. Superato il Brennero, dopo aver perso più tempo del solito, a causa operazioni doganali, riparto cercando di recuperare il tempo perduto, tanto è il desiderio di arrivare a casa.
Supero lo Dolomiti, penso già a Longarone, dove di consueto faccio tappa per degustare un buon caffè, per poi proseguire per Conegliano.
Ma questo non avviene !
Raggiunte le prima abitazioni lungo la statale Alemagna, abitazioni che distano all’incirca 300 metri dal “bar” al quale ho intenzione di fermarmi, noto una quindicina di persone, persone anziane, donne con le coperte sulle spalle, tristi in volto. Proseguo la corsa, lentamente fino alla fine della piccola discesa.
Non si passa ! Ci sono macerie ed acqua torbida che scorre piano, piano. Chiedo cosa sia successo, la gente risponde terrificata: “E’ SCOPPIATA LA DIGA”.
Attendo qualche minuto finché il livello dell’acqua si abbassi al punto da permetterci di procedere verso il paese di Longarone. Intanto materiale di ogni genere, trascinato dalla acque, invade le strade. Al silenzio si contrappongono i lamenti dei feriti e il grido di disperazione dei soccorritori.
Con i fari accesi della mia macchina, unica fonte di luce dopo la luna, cerco di illuminare le persone accorse a soccorrere; sbalordito vedo avvicinarsi alla mia macchina (unica in quel momento) una persona con un corpo tra le braccia che chiede ad una signora anziana la coperta che ha sulle spalle per coprire questo corpicino. Avvolto così in questa coperta di colore rosso e nero, mi invitano ad aprire la porta posteriore della vettura ed adagiano sul sedile il corpicino.
A questo punto, assicuro i presenti che sarà mia cura portarlo all'ospedale di Pieve di Cadore. Dopo aver applicato sulla vettura una lampada gialla a luce intermittente, usata per casi di emergenza, che permette di ottenere via libera durante il viaggio, a tutta velocità, con le trombe accese, mi dirigo verso nord, cioè in direzione di Pieve di Cadore. Non ricordo, durante il percorso, di aver incontrato, in senso inverso, alcun automezzo.
Durante il viaggio, mi rivolgo a mia sorella, la quale sorreggeva la testa di questo piccolo corpo, invitandola a chiedere alla fanciulla come si chiamasse, anche per controllare il suo stato di salute.
- “Come ti chiami ?” - domanda mia sorella - “MICAELA” - “Cosa è successo ?” - “… tanta acqua... acqua -tanta” risponde con voce fievole.
Arrivo a Tai di Cadore, mi fermo davanti alla caserma del Battaglione Alpini, chiedo dell’ufficiale di picchetto al corpo di guardia e avverto su quanto è accaduto a Longarone. – “... una tragedia, è scoppiata le diga del Vajont, c’è bisogno di immediato soccorso”. L’ufficiale e il corpo di guardia sono velocissimi poiché, mentre io sono ancora nel cortile dell’ospedale, dopo aver appena consegnato la piccola Micaela, gli Alpini sono già arrivati alla casermetta di Pieve di Cadore, vicinissima all’ospedale sede dell’autosezione del Battaglione: a colpi di scarponi sul portone della parte carraia danno l’allarme.
Così, consegnata la bambina, dato il mio nome e cognome e il numero di targa della vettura, transitando per il passo della Mauria, in direzione di Udine-Sacile, arrivo finalmente a San Vendemiano il mattino del 10 ottobre alle ore 5.45: porto la triste notizia, confermata poi da una edizione straordinaria del giornale radio.
Una settimana dopo assieme alla moglie vado all’Ospedale di Pieve di Cadore, faccio visita alla piccola Micaela e, con il desiderio di poterla adottare, nel caso fosse rimasta sola senza più parenti. Micaela durante la tragedia perde i genitori, la nonna e una sorella. A Micaela consegno un biglietto con il mio indirizzo. Dopo una settima, mi scrive, dall’ospedale, una lettera di ringraziamento per il soccorso prestatole ed una cartolina di auguri di Natale, con timbro postale Belluno.
Successivamente silenzio completo! Cerco in qualche modo di reperire notizie, inutilmente. Desidero vederla, conoscerla meglio ed eventualmente esserle utile. Di lei ho solo il nome di battesimo. Mentre lei probabilmente ha perso il mio indirizzo e quindi non è più in grado di mettersi in contatto con me.
Da quel 9 ottobre 1963 sono trascorsi 38 anni, il sottoscritto cerca Micaela e lei cerca quel signore che di passaggio l’ha soccorsa.
La dolorosa storia, i miei figli, nati negli anni successivi al 1963, la conoscono bene, perché raccontata più volte in prossimità della data: 9 ottobre; quindi mi assicuravano il ritrovamento dell’allora ragazza, poiché via internet avevano visto un sito riguardante il VAJONT.
Proprio il giorno di S. Stefano, sfogliando il documentario di Bepi Zanfron, foto-reporter della sciagura, mi hanno fatto vedere la foto di una bambina scattata all’Ospedale di Pieve di Cadore. – “Questa è la bambina che io ho soccorso e trasportata all’Ospedale” – dico.
Così i miei figli si sono messi a navigare e, trovato il sito con il nome di Micaela hanno spedito via internet una lettera. Il mattino successivo, alle ore 11 circa, squilla il telefono, dall’altra parte del filo una voce femminile dice di essere Micaela Coletti, quella Micaela che ricordava la macchina di passaggio con due uomini e due donne e una luce gialla: quella ragazza, ora donna che io cercavo e che lei a sua volta cercava me, avendo smarrito il mio indirizzo.
“Domani sarò a San Vendemiano” – mi assicura, e così è stato. Ci siamo abbracciati, entrambi molto commossi, felicissimi dell’incontro, del ritrovamento.
Quella piccola Micaela oggi è una donna matura, mamma di due giovanotti e Presidente del Comitato per i sopravvissuti del Vajont.
Tale Comitato ha quale fine primario la conservazione della memoria non solo di Longarone, ma anche far conoscere il VAJONT e tutte le problematiche che ne conseguono, pure a carattere psicologico.
Questo il testo della targa consegnata dal Comitato:
A Cesare Antiga, Alpino di San Vendemiano (TV)
In ricordo dell’aiuto dato
nella notte del 09.10.1963
Il Presidente
Micaela Coletti
Gli alpini in aiuto
Micaela Coletti e Cesare Antiga
VAJONT
per non dimenticare...
9 0ttobre 1963. Ore 23,39.
Una massa enorme di 250 milioni di metri cubi di roccia cominciò a muoversi ad una velocità frenetica.
La natura cominciò ad urlare il suo dolore, prima lentamente e poi, con un urlo terrificante, scatenò, alle ore 22,40, tutta la sua rabbia nel confronto degli uomini che l’avevano ferita, umiliata, sfruttata, uomini che abitavano ai piedi di quella montagna chiamata “Toc”, che vuol dire marcio, friabile.
Urla la bestia immonda e gigantesca, ferita, urla e inghiotte la vita di 2.000 persone. Loro unica colpa l’abitare ai suoi piedi.
Prima inghiotte 5 villaggi sulle rive del lago: Frasien, San Martino, Col di Spesse, Patata, Il Cristo.
Dal lago della diga si innalza per un centinaio di metri un’onda gigantesca, scavalca la diga, si divide in due. A sinistra spianando Codissago. Con tutta la forza raggiunge Longarone con un volume d’acqua e velocità tali da polverizzare tutto.
Con un urlo gigantesco spazza case ed abitanti, sgretola tutto in frammenti minutissimi e impasta con fango e morte corpi, oggetti... tutto.
5 sopravvissuti, al tempo bambini, letteralmente strappati alla morte ed al fango, nel novembre del 2001 hanno costituito il Comitato per i Sopravvissuti del Vajont.
Scopo primario del Comitato è la conservazione della memoria non solo di Longarone ma anche dei fatti successi il 9 ottobre 1963 e, non ultimo, l’aiuto psicologico per tutti coloro che, in varia misura e maniera, hanno riportato dei danni psicologici derivanti dalla tragedia.
Il nostro passato l’hanno scritto, e soprattutto l’hanno tolto, gli altri; vogliamo riappropriarci del nostro passato. Ci spetta di diritto !
Vogliamo che il Vajont sia raccontato da chi l’ha vissuto in prima persona, sulla propria pelle e, soprattutto, da solo.
Vogliamo raccontare soprattutto ai ragazzi cos’è stato per noi il Vajont, cosa ci ha tolto, cosa ci ha lasciato, come lo Stato si è preoccupato dei superstiti decidendo, volontariamente, di dimenticarsi di noi.
Vorremo dire ai giovani come l’interesse personale, l’ingordigia, l’indifferenza, l’arroganza possa a tal punto essere dannosa da poter ammazzare, nel giro di pochi minuti, 2.000 persone.
Il tempo di un battito di ciglia !
Vorremo raccontare tutto ciò a chi ancora crede nella giustizia !
Il nostro interesse primario è, dunque, quello del contattare soprattutto le scuole Medie e Superiori; partecipare a convegni, tavole rotonde, presentazioni di libri e quant’altro allo scopo di far conoscere il Vajont e tutte le problematiche che ne conseguono anche a carattere psicologico.