Antonio Cantore
ANTONIO CANTORE
Fiamme Verdi Agosto 1965
Fiori di montagna recati a Forcella di Fontananegra da una rappresentanza dell’ANA, nel giorno cinquantenario della morte del Condottiero Alpino — il 6° Raduno Alpino Triveneto fissato per il 12 settembre alle Tofane quale Pellegrinaggio in memoria del Grande Caduto
Il Generale ANTONIO CANTORE
chiamato il Generale «Avvanti» per l’accentuata espressione d’incitamento che lanciava ai reparti in combattimento
E’ il 20 luglio: cinquant’anni addietro il Generale Antonio Cantore ha lasciato le scarpe al sole delle Tofane ed oggi, mentre scrivo queste poche parole di rievocazione, una esigua ma assai significativa rappresentanza di dirigenti alpini sta salendo a Forcella di Fontananera per spargere fiori di montagna sulle rocce che furono bagnate dai sangue del Papà degli Alpini.
Invidio non poco i fortunati (che son anche i più volonterosi che stanno dirigendosi al pur dolente appuntamento della Forcella, anche se la Sezione vi è rappresentata e sebbene il Consigliere nazionale Avv. Benvenuti rappresenti il Presidente Nazionale e quindi tutte le Penne Nere rimaste a casa ma non dimentiche della ricorrenza tanto amara quanto gloriosa.
Ci sono soprattutto i bocia, i quali presenteranno le armi alla memoria di Cantore al Rifugio che porta il Suo nome, alla Forcella ove il Generale Andreis scoprirà una targa commemorativa mentre si leveranno le note del «silenzio», ed infine al cippo del Vallone di Tofana poiché è proprio qui che Cantore cadde e non alla Forcella di Fontananegra come viene spesso creduto.
Il 20 luglio 1915 la Forcella era in mano austriaca e Cantore venne colpito mentre la osservava dal sottostante vallone proprio per valutarne la possibilità di conquista.
Tre cordate della Brigata >«Cadore» salgono per difficili vie le tre Tofane; due compagnie alpine e una batteria di «montagnini» della «Tridentina» vi salgono per le vie normali; un cappellano alpino celebra in vetta la S. Messa:
il Generale Andreis — in collegamento radio da una delle cime — commemora Cantore parlando ai suoi bravi giovani alpini, mentre il Generale Ciglieri rende omaggio alla tomba di Cantore all’Ossario di Pocol dopo analoga cerimonia al monumento in Cortina con una rappresentanza dell’A.N.A. locale.
Avrei voluto essere lassù assieme a coloro che oggi fanno la parte dei «parenti stretti» — perchè lì avevo qualcosa da apprendere, mentre qui al piano non ho che da dire ad altri il poco che ho in me e ch’è ben misera cosa dopo i molti e qualificati scritti dedicati a Cantore e che in parte vengono qui di seguito trascritti.
Ne ha parlato — tra i tanti — il grande alpino Manaresi quando, in occasione della ricorrenza di trentacinque anni or sono, ebbe così a scriver suggerendo più il costruttivo raccoglimento che l’inadeguata parola:
Non turbiamo, con parole inutili, l’intima commozione dell’ora:
fra gli imponenti torrioni delle Tofane, che scagliano, verso il cielo, la loro mole di pietra, mentre il tramonto accende di rosso la cerchia dolomitica e le valli cominciano ad affondare nell’ombra, sembra veramente che Antonio Cantore riviva in mezzo ai suoi alpini.
Non alto, non bello, non elegante, Antonio Cantore sembrava scolpito nel macigno duro, volitivo, quadrato, non conosceva né debolezza, né esitazione, né paura; uso a volere ed a comandare, pagava sempre di persona.
In Africa, come nella grande guerra, che egli poté combattere per appena due mesi, egli era apparso veramente come l’uomo della battaglia, la sua presenza bastava a fare, dei reparti ai suoi ordini, travolgenti valanghe di uomini, il suo disprezzo sdegnoso della morte trascinava i trepidi e creava, attorno al generale, il mito della invulnerabilità.
Gli occhi suoi avevano lampi metallici, dietro le lenti; il gesto era spesso nervoso ed a scatti. Talvolta egli si raccoglieva nella meditazione e nel silenzio: il cuore suo era grande e buono, come è il cuore di tutti i veri capitani.
Altre considerazioni vanno aggiunte in tale occasione per quanto riguarda l’appellativo di Papà che le Penne Nere han dato e van ripetendo a Cantore, poiché le paternità spirituali, affettive, sono assai numerose negli Alpini.
— El gèra un vero papà, ebbero spesso a dire gli alpini del loro comandante di reggimento o di battaglione, e la dolce espressione filiale ricorre tra noi — fortunati — con una frequenza insolita per gli altri Corpi.
La famiglia alpina — quella che l’indimenticabile Don Piero Zangrando diceva essere «una porca fameja ma una gran bella fameja» — nata piccolina e quasi clandestina più di novant’anni or sono, ha generato via via reggimenti e battaglioni che costituiscono altrettante famiglie, pur nell’integrità assoluta dell’insieme, e che ebbero — per esigenze affettive ed organizzative
un capofamiglia per ogni ciclo generativo troppo spesso coincidente col scoppiare di una guerra.
Riassumendo, vorrei dire che Perrucchetti è il Padre degli Alpini, il capostipite di questo casato ch’è meglio noto come «naja alpina», e la qualifica comporta il concetto di una paternità quasi fisiologica; il fondatore volle questi figli scarponi perchè essi difendessero validamente la propria Madre che è appunto l’Italia.
La qualifica di «papà» meglio riassume il concetto di formazione ed allevamento dei figli attraverso la comune vita di famiglia, ed ecco che Cantore, che ha portato al battesimo di fuoco i reparti alpini cibandoli del suo vibrante e paterno entusiasmo, è divenuto il Papà degli Alpini.
E’ necessario sapere di avere un papà in seno al battaglione e al reggimento. Quelli che non sono affatto necessari sono i «patroni»: e qui occorre un po’ di «spiega». C’è S. Colombano ch’è il Patrono delle truppe da montagna di tutto il mondo; c’è S. Maurizio dichiarato da Papa PIO XII Celeste Patrono dell’Arma italiana degli Alpini, i quali — avidi e bisognevoli di protezione divina — si son posti soprattutto sotto il manto illuminante della Madonna.
Qualcuno dirà che gli Alpini non ne son troppo degni, ma vorremmo ben sapere chi è veramente meritevole di alzare il proprio sguardo in quello della Madre di Dio; gli scarponi «brontolano» anche con la soave Vergine (non si creda però alla balla dei superbestemmiatori) quasi per farLe capire con maggiore celerità i grandi guai che, specie in guerra, affliggono gli alpini, e per sollecitare la Sua protezione nelle circostanze disumane in cui il porco mondo ladro spesso mette gli alpini.
Pochi certamente hanno come noi erette tante chiese alla Madre di Dio, anche nelle condizioni più difficili: magari rubando al Genio tutti i materiali occorrenti — come è avvenuto — tanto da dedicare la chiesetta alla... Madonna del Furto.
Non sono questi Patroni celesti che gli Alpini respingono, ma quelli che la burocrazia soleva un tempo imporre chiamandoli Augusti Patroni e che erano i principi della casa regnante già loro troppo abbisognevoli della protezione dei Santi e degli stessi Alpini.
Ritornando a Cantore, non è inopportuno accennare al «cecchino» che l’ha abbattuto e che pochi anni or sono un nostro giornale ha definito «rinnegato cortinese».
Non credo di essere il solo a disapprovare questa espressione anche se il cecchino cortinese non può certamente riscuotere la simpatia degli Alpini!
C’è motivo di credere che si conosca il nome di colui che bersagliò la fronte del Vecio Cantore; e che sia ancor vivo a Cortina ove quasi certamente vivono i suoi figli nati italiani.
Il punto è proprio questo: egli era nato austriaco e, sentendosi tale egli fece il suo dovere di combattente. Il fatto ch’egli fosse nato a Cortina — paese di prevalenti sentimenti e di tradizioni italiane — non lo obbligava a sentirsi italiano.
Sostenere il contrario comporterebbe la deduzione che Cantore venne ucciso da un italiano e provocherebbe soprattutto l’appiattimento dell’eroismo dimostrato dagli irredenti nati tra Trento e Pola e che passando a vestire il grigio-verde italiano ebbero a compiere un vero atto eroico spesso pagato con la vita proprio per questo; facendolo, essi testimoniarono l’italianità delle terre irredente e la prevalente aspirazione delle loro genti che non poteva comprensibilmente ritenersi unanime.
A questa chiarificazione siamo tenuti specie noi poiché è proprio tra gli Alpini che gli irredenti dimostrarono il loro ideale di unificazione all’Italia.
Poco dopo la costituzione del Corpo, quando le compagnie erano ancora quindici in tutto, la «tredicesima» di stanza a Edolo — si recò in esercitazione sull’Adamello in completo assetto di guerra e, giunta al confine, il generale austriaco Kuhn (che Garibaldi aveva combattuto a Bezzeca), ammirato, volle conoscere il comandante e gli altri ufficiali; erano il capitano Adami, il tenente De Steffenini e il tenente Armani: trentini e tutti tre renitenti alla leva austriaca! Il generale austriaco ci rimase tanto male da allontanarsi senza profferir parola.
L’elenco dei trentini e giuliani irredenti che furono tra gli alpini e nelle altre specialità del nostro Esercito, sarebbe lungo essendo già notevolissimo quello dei loro caduti e delle medaglie d’oro meritate. E’ per giustamente esaltare questa fede che gl’irredenti non erano tenuti ad avere e a manifestare, che non si deve considerare un rinnegato il cortinese che fu fatale a Cantore.
In altra parte di questo giornale rievochiamo la fine di un grande avversario: Sepp Innerkofler, travolto dall’irruenza coraggiosa di un semplice Alpino, come Cantore ebbe mozzata la penna da un semplice soldato dell’altra trincea. E’ la guerra; e come va riconosciuto il valore del nostro «lapidatore», va riconosciuta l’abilità di un tiratore che mai si sentì italiano e che agì quindi da austriaco e non da rinnegato.
Ciò nulla toglie alla figura epica del Vecio Toni Cantore al quale piace molto di più che si salga alla Forcella di Fontananegra con questi sentimenti più aderenti alla realtà e più puliti per ogni italiano; egli è là, a Cortina, immortalato nel bronzo ai piedi della piramide di roccia sulla quale stanno appollaiate le aquile della Vittoria; e i suoi occhi ripetuti nel bronzo dominano le Tofane, dominano tutta Cortina ed anche quel «cortinese» di ieri che gli fece sentire in fronte l’ardente bacio della pallottola cecchina.
Andremo — più numerosi dell’avanguardia di oggi — a trovare Cantore il 12 settembre in occasione del 6° Raduno che le Sezioni alpine delle Tre Venezie hanno voluto riservare al ricordo del Papà degli Alpini: non un’adunata come le solite, ma un Pellegrinaggio che esprimerà l’immutato ed immutabile affetto delle Penne Nere per il Vecio Condottiero che mai ebbe paura di mostrare la sua fronte ai nemico.
Treviso, 20 luglio 1965
M. ALTARUI
Articolo tratto dalla «Storia popolare illustrata della grande guerra 1914-1918» dello scrittore e poeta trevigiano
Roberto Mandel.
A sentir questo nome: venerato, caro, indimenticabile, il cuore di tutte le Fiamme Verdi trema di commozione profonda.
Era il padre degli Scarponi. Buon ligure, nato a Sampierdarena nei portentoso ‘60 come per un presagio di gloria, aveva
la parola breve, il gesto rude, l’anima grande. La sua persona massiccia sembrava intagliata nel macigno da un artefice
rozzo di creature primitive e potenti.
I Fanti del monte si riconoscevano nella sua semplicità maschia, burbera e brusca nell’aspetto per quant’era invece generosa e buona.
Lo chiamavano el Vecio. Con lui andavano dovunque: nel simun e nella tormenta, fra le dune e per le lavine, nel deserto di sabbia e nell’inferno di neve. Seguendolo, sapevano di vincere. S’era creata, Intorno a lui, la leggenda della fortuna sfacciata. Si diceva che qualunque audacia gli sarebbe riuscita. Quando le truppe nutrono, riguardo al loro condottiero, questo convincimento, possono davvero osare con lui l’inosabile.
Il fascino del generale Cantore non era l’aspetto decorativo, la parola eloquente, la tradizIone nobiliare. Era l’esempio. In Libia, andava all’inseguimento dei beduini col frustino. Nell’impeto contro il nemico, precedeva tutti. In trincea, sembrava alle manovre. Sarebbe stato capace di morir di sete per versare l’ultima goccia della sua borraccia tra le labbra arse d’un ferito.
Ad un sottotenente affacciato al parapetto diceva: — Si tiri indietro e lasci guardare a me, chè sono vecchio.
Alla testa d’altri soldati, forse, non sarebbe stato al suo posto. Per gli Alpini: gente quadra che sa valutare d’istinto le virtù sostanziali, era il condottiero ideale.
Eroe tipico della gente del monte, Antonio Cantore era in tutto: nell’ardimento tenace, nell’anima granitica, nella dura volontà appassionata, il simbolo vivo delle Fiamme Verdi d’Italia.
***
Colonnello in Libia, comandante di quell’8° reggimento Alpini cui le gesta compiute andavano intessendo un’aureola di leggenda, Antonio Cantore incominciò la grande guerra — il 24 maggio del 1915 — al comando della Brigata Mantova.
Alla testa dei Fanti del 113° e del 114° aveva passato, in un impeto d’entusiasmo e di canzoni, il confine iniquo, entrando liberatore in Ala redenta. Nel giugno aveva condotto splendidamente le sue truppe a Serravalle, all’Altissimo, a Coni Zugna.
Le magnifiche virtù di condottiero dimostrate nell’espugnare formidabili posizioni nemiche, gli valsero — dopo qualche settimana appena — la promozione per meriti eccezionali a comandante della 2° Divisione, impegnata nella zona di Cortina d’Ampezzo.
Ben arduo compito attendeva il generale e le sue truppe.
La 2° Divisione — appartenente al I Corpo d’Armata — era in prima linea lungo il versante occidentale delle Tofane, aggrappata quasi alle rocce impervie dominate dai vertici aguzzi sui quali s’annidavano i nemici.
Favoriti dalle postazioni, gli scelti tiratori austriaci: i famosi Cecchini armati di carabine infallibili, s’esercitavano tranquillamente al bersaglio sui nostri Fanti, costretti ad una penosa vigilia minacciata di continuo dall’agguato insidioso.
Poichè il massiccio proteggeva la VaI Badia, dove avremo potuto svolgere importanti operazioni offensive, bisognava conquistario per intero.
Fra la Tofana I e la II, giganteschi denti di rocca levigata, si apre un canalone angusto: la forcella di Fontana Negra. La 2° Divisione s’insinuò per quella spaccatura, avanzando fino a premer da vicino le difeso austriache.
Un altro impeto avrebbe potuto condurci alla conquista del valico.
i Fanti erano certi che li avrebbe guidati ancora, al nuovo assalto, il generale Cantore.
Invece...
Fu il giorno dopo: il 20 luglio del 1915.
***
Al suo passare tutti scattavano in piedi, salutando con rispetto.
EI Vecio, il papà delle Fiamme Verdi percorreva la trincea, fermandosi tratto tratto a conversare con i suoi soldati. Quel condottiero rude e taciturno sapeva trovare senza cercarle le parole che vanno al cuore. I Fanti sentivano posarsi su di loro lo sguardo virile del generale. Era uno sguardo fermo, leale, paterno, e penetrava nelle anime.
Qualche fucilata scoppiettava, scandendo il silenzio solenne della montagna. Qualche pallottola, venuta di chissà dove, si schiacciava contro i ciottoli ammonticchiati in lungo muricciolo verso il nemico.
Badi generale! — avvertì premurosamente qualcuno — Ci sono i cecchini e... tirano!
— Ammazzano.. il tempo — borbottò Cantore con noncuranza.
Del tutto indifferente, el Vecio seguitò ad andare col suo passo caratteristico d’uomo della vetta, consueto alla marcia faticosa e accorta su per le mulattiere asperrime. Voleva recarsi nella postazione più avanzata per scrutare il terreno e rendersi conto delle difficoltà da vincere alle prove future.
Gli ufficiali che lo seguivano, tentarono più e più volte di dissuaderlo.
Invano.
Cantore non pensava punto a sé. Badava solo ai doveri del suo grado e del suo compito. Non si preoccupava che di conoscere la via della vittoria.
L’ultimo spalto venne raggiunto. Ora le schioppettate dei tiratori in agguato s’eran fatte più frequenti. Gli occhi degli ufficiali si fissavano con un segreto timore sul generale, ma questi rimaneva impassibile come se il nemico fosse stato chissà mai quanto lontano.
Sempre indifferente e sereno, Cantore s’affacciò dal muricciolo di sasso. Girò intorno lo sguardo scrutatore a discernere le trincee austriache, i transiti possibili, le strade della futura vittoria.
Uno sciame di pallottole tempestò sul muricciolo. Qualcuno del seguito impallidì.
Il generale seguitava a scrutar tutt’intorno.
D’un tratto s’accasciò, senza un grido, senza un gemito.
Era stato fulminato in fronte dal piombo austriaco.
***
Irrigiditi sull’attenti, gli occhi gonfi di lagrime, i Fanti della 2° Divisione lo videro passare per l’ultima volta in mezzo a loro.
Antonio Cantore non volgeva più lo sguardo paterno, pieno di energia e di bontà, sopra i suoi figlioli che l’adoravano. Spenti dalla morte, i suoi occhi guardavano ormai oltre la vita, nella luce della gloria.
Sorretto dalle braccia dei suoi ufficiali, l’eroe caduto lasciava per sempre i suoi soldati senza dir loro l’ultimo addio. La bocca ammutolita non incitava più le schiere dei valorosi alla lotta e alla conquista.
Ma, abbandonando l’Alpe insanguinata per ascendere all’immortalità, Antonio Cantore lasciava ai suoi Fanti, a tutti i Fanti del monte, un incitamento solenne, un esempio sublime, un segno di vittoria: la sua medaglia d’oro.
I Fanti del monte si riconoscevano nella sua semplicità maschia, burbera e brusca nell’aspetto per quant’era invece generosa e buona.
Lo chiamavano el Vecio. Con lui andavano dovunque: nel simun e nella tormenta, fra le dune e per le lavine, nel deserto di sabbia e nell’inferno di neve. Seguendolo, sapevano di vincere. S’era creata, Intorno a lui, la leggenda della fortuna sfacciata. Si diceva che qualunque audacia gli sarebbe riuscita. Quando le truppe nutrono, riguardo al loro condottiero, questo convincimento, possono davvero osare con lui l’inosabile.
Il fascino del generale Cantore non era l’aspetto decorativo, la parola eloquente, la tradizIone nobiliare. Era l’esempio. In Libia, andava all’inseguimento dei beduini col frustino. Nell’impeto contro il nemico, precedeva tutti. In trincea, sembrava alle manovre. Sarebbe stato capace di morir di sete per versare l’ultima goccia della sua borraccia tra le labbra arse d’un ferito.
Ad un sottotenente affacciato al parapetto diceva: — Si tiri indietro e lasci guardare a me, chè sono vecchio.
Alla testa d’altri soldati, forse, non sarebbe stato al suo posto. Per gli Alpini: gente quadra che sa valutare d’istinto le virtù sostanziali, era il condottiero ideale.
Eroe tipico della gente del monte, Antonio Cantore era in tutto: nell’ardimento tenace, nell’anima granitica, nella dura volontà appassionata, il simbolo vivo delle Fiamme Verdi d’Italia.
***
Colonnello in Libia, comandante di quell’8° reggimento Alpini cui le gesta compiute andavano intessendo un’aureola di leggenda, Antonio Cantore incominciò la grande guerra — il 24 maggio del 1915 — al comando della Brigata Mantova.
Alla testa dei Fanti del 113° e del 114° aveva passato, in un impeto d’entusiasmo e di canzoni, il confine iniquo, entrando liberatore in Ala redenta. Nel giugno aveva condotto splendidamente le sue truppe a Serravalle, all’Altissimo, a Coni Zugna.
Le magnifiche virtù di condottiero dimostrate nell’espugnare formidabili posizioni nemiche, gli valsero — dopo qualche settimana appena — la promozione per meriti eccezionali a comandante della 2° Divisione, impegnata nella zona di Cortina d’Ampezzo.
Ben arduo compito attendeva il generale e le sue truppe.
La 2° Divisione — appartenente al I Corpo d’Armata — era in prima linea lungo il versante occidentale delle Tofane, aggrappata quasi alle rocce impervie dominate dai vertici aguzzi sui quali s’annidavano i nemici.
Favoriti dalle postazioni, gli scelti tiratori austriaci: i famosi Cecchini armati di carabine infallibili, s’esercitavano tranquillamente al bersaglio sui nostri Fanti, costretti ad una penosa vigilia minacciata di continuo dall’agguato insidioso.
Poichè il massiccio proteggeva la VaI Badia, dove avremo potuto svolgere importanti operazioni offensive, bisognava conquistario per intero.
Fra la Tofana I e la II, giganteschi denti di rocca levigata, si apre un canalone angusto: la forcella di Fontana Negra. La 2° Divisione s’insinuò per quella spaccatura, avanzando fino a premer da vicino le difeso austriache.
Un altro impeto avrebbe potuto condurci alla conquista del valico.
i Fanti erano certi che li avrebbe guidati ancora, al nuovo assalto, il generale Cantore.
Invece...
Fu il giorno dopo: il 20 luglio del 1915.
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Al suo passare tutti scattavano in piedi, salutando con rispetto.
EI Vecio, il papà delle Fiamme Verdi percorreva la trincea, fermandosi tratto tratto a conversare con i suoi soldati. Quel condottiero rude e taciturno sapeva trovare senza cercarle le parole che vanno al cuore. I Fanti sentivano posarsi su di loro lo sguardo virile del generale. Era uno sguardo fermo, leale, paterno, e penetrava nelle anime.
Qualche fucilata scoppiettava, scandendo il silenzio solenne della montagna. Qualche pallottola, venuta di chissà dove, si schiacciava contro i ciottoli ammonticchiati in lungo muricciolo verso il nemico.
Badi generale! — avvertì premurosamente qualcuno — Ci sono i cecchini e... tirano!
— Ammazzano.. il tempo — borbottò Cantore con noncuranza.
Del tutto indifferente, el Vecio seguitò ad andare col suo passo caratteristico d’uomo della vetta, consueto alla marcia faticosa e accorta su per le mulattiere asperrime. Voleva recarsi nella postazione più avanzata per scrutare il terreno e rendersi conto delle difficoltà da vincere alle prove future.
Gli ufficiali che lo seguivano, tentarono più e più volte di dissuaderlo.
Invano.
Cantore non pensava punto a sé. Badava solo ai doveri del suo grado e del suo compito. Non si preoccupava che di conoscere la via della vittoria.
L’ultimo spalto venne raggiunto. Ora le schioppettate dei tiratori in agguato s’eran fatte più frequenti. Gli occhi degli ufficiali si fissavano con un segreto timore sul generale, ma questi rimaneva impassibile come se il nemico fosse stato chissà mai quanto lontano.
Sempre indifferente e sereno, Cantore s’affacciò dal muricciolo di sasso. Girò intorno lo sguardo scrutatore a discernere le trincee austriache, i transiti possibili, le strade della futura vittoria.
Uno sciame di pallottole tempestò sul muricciolo. Qualcuno del seguito impallidì.
Il generale seguitava a scrutar tutt’intorno.
D’un tratto s’accasciò, senza un grido, senza un gemito.
Era stato fulminato in fronte dal piombo austriaco.
***
Irrigiditi sull’attenti, gli occhi gonfi di lagrime, i Fanti della 2° Divisione lo videro passare per l’ultima volta in mezzo a loro.
Antonio Cantore non volgeva più lo sguardo paterno, pieno di energia e di bontà, sopra i suoi figlioli che l’adoravano. Spenti dalla morte, i suoi occhi guardavano ormai oltre la vita, nella luce della gloria.
Sorretto dalle braccia dei suoi ufficiali, l’eroe caduto lasciava per sempre i suoi soldati senza dir loro l’ultimo addio. La bocca ammutolita non incitava più le schiere dei valorosi alla lotta e alla conquista.
Ma, abbandonando l’Alpe insanguinata per ascendere all’immortalità, Antonio Cantore lasciava ai suoi Fanti, a tutti i Fanti del monte, un incitamento solenne, un esempio sublime, un segno di vittoria: la sua medaglia d’oro.
Antonio Cantore nei ricordi di un «Vecio»
Dal numero speciale di «Malga Roma», pubblichiamo in occasione dell’Adunata Nazionale del 1954, riproduciamo il seguente articolo scritto da un anonimo «vecio della Libia»:
Dal numero speciale di «Malga Roma», pubblichiamo in occasione dell’Adunata Nazionale del 1954, riproduciamo il seguente articolo scritto da un anonimo «vecio della Libia»:
Non è possibile ad ogni nostra adunata non sentire fra noi, sopra noi, lo spirito di Cantore; e le rievocazioni si
affacciano negli animi dei reduci insieme all’imperativo morale di farne parte alle nuove generazioni di Alpini. Eccoci
dunque a rievocare la figura di Antonio Cantore, attraverso qualche episodio scelto fra i meno noti.
Nato a Sampierdarena nel 1860, sottotenente di Fanteria a 20 anni, passò negli alpini da maggiore nel 1898. Quando i reggimenti alpini furono portati da 7 a 8, Cantore fu incaricato di costituire l’8° alpini (battaglioni Gemona, Cividale e Tolmezzo).
Ma l’epopea di Cantore doveva irradiare i suoi primi bagliori in terra di Libia, dove il suo 8° Alpini speciale (battaglioni Susa del 3°, Vestone del 5°, Feltre del 7° e Tolmezzo dell’8°) scrivevano a lettere d’oro il primo capitolo della Storia degli Alpini in guerra.
L’altipiano del Garian, dopo aver visto gli alpini creatori di magnifiche strade aperte per la prima volta al traffico degli autocarri, doveva essere testimonio della prima grande prova di valore che i battaglioni di Cantore, elettrizzati dal vecchio colonnello, davano ad Assaba nella bella e decisiva battaglia in campo aperto il 23 marzo del 1913, giorno della Santa Pasqua. Cantore, dapprima a cavallo, poi, ferito il cavallo, proseguendo a piedi fra le due teste d’avanguardia del Feltre a sinistra e del Tolmezzo a destra, coi suoi due valorosi aiutanti maggiori, capitano Cavarzerani e tenente Carlo Rossi, guidava la battaglia, riducendo alla più semplice espressione i suoi ordini, cioè ad una sola parola; «Avvanti, avvanti!».
La grande vittoria di Assaba aprì la strada all’avanzata trionfale dell’Italia per centinaia di chilometri dal Garian a Jeffren, da Jeffren a Nalut, fino al confine della Tunisia.
Ma un’altra prova attendeva quei battaglioni. L’insuccesso del maggio 1913 in Cirenaica a Sidi Garbaa, induceva il comando a richiamare da Nalut quasi tutte le truppe di Cantore, che lasciatovi il solo Susa, faceva imbarcare l’8° speciale alla volta di Derna. Nella battaglia di Ettangi (13 giugno), gli alpini di Cantore inquadrati con truppe eritree ristabilivano in pochi giorni la situazione riconquistando tutte le posizioni e ricuperando i pezzi di una batteria perduta nel maggio a Sidi Garbaa. Reduce da Ettangi, la colonna Cantore s’imbarcava alla volta di Tobruk, di dove, marciando senza sosta su Ras Mdauar, debellava in un’altra radiosa giornata le ultime resistenze delle truppe di Enver bey, mentre due aeroplani tricolori accompagnavano l’avanzata degli alpini.
Da Tobruk, Cantore passò a Merg, dove succedette nel comando della zona al generale Torelli, caduto a Tecniz. Lo stato maggiore di Cantore al Merg era limitato a tre ufficiali, il capitano Venini (la medaglia d’oro padre di medaglia d’oro e autore dell’inno degli sciatori), il tenente Carlo Rossi aiutante maggiore, e il sottotenente Roberto Olmi interprete di arabo. All’inizio del 1914 dal Merg, Cantore balzò alla presa di El Carruba e alla conquista di Marana. Promosso generale andò a Bengasi dove gli fu affidato il comando delle operazioni nel Sud Bengasino, operazioni ch’egli diresse in modo egregio vincendo non soltanto le insidie dei nemico ma anche gli attacchi cartacei dell’alto comando amico di Bengasi!
Nonostante avesse avuto carta bianca per agire, continuavano a giungergli attraverso una rudimentale stazione radio a scintilla, valanghe di radiogrammi che chiedevano specchi e specchietti di dati più o meno statistici, la cui compilazione materiale avrebbe distratto in permanenza il poco personale del comando, impegnato in attività ben diversa. Cantore decise di ispezionare la stazione Radio. Vi andò solo. Quando gli si presentò sull’attenti il sottufficiale radiotelegrafista, Cantore fu eccezionalmente gentile con lui:
— Stia comodo, sergente. Mi dica un po’. Lei impiega un apparecchio molto delicato e importante, no?
— Certamente sig. Generale.
— Mi faccia un po’ di spiega, sergente. E questo che cos’è e questo tasto a che cosa serve?
Il bravo sottufficiale parlò di triodi amplificatori e di griglie, di circuiti anodici e di induzioni e concluse la sua spiega, mostrando una specie di chiavistello e dicendo:
«Vede, signor Generale, se si perdesse questo semplicissimo pezzetto, l’intera stazione sarebbe ridotta al silenzio».
Cantore dissimulò la sua soddisfazione, fece qualche altra domanda al sergente sul rancio e, approfittando di un momento di distrazione del suo dipendente, con abile mossa tolse il chiavistello dall’apparecchio e se lo mise in tasca. Il sergente lo accompagnò fino al recinto della stazione radio e rientrò soddisfatto di essersela cavata senza un «cicchetto».
La radio tacque per tutta la rimanente durata del ciclo operativo e Cantore, liberato dal disbrigo delle scartoffie, precedette senza intralci alla riconquista di Agedabia e di buona parte del Sud Bengasino.
Alla fine mandò a chiamare il sottufficiale r. t. che da tempo aveva invano segnalato l’inspiegabile scomparsa del chiavistello e, consegnandogli il pezzo, gli disse:
— «Guardi un po’ se è questo quel pezzo che le mancava, me lo sono trovato non so come nelle mie tasche». E gli dettò il dispaccio per Bengasi annunziante la riconquista di Agedabia.
Cantore era un prodigio di attività. A vederlo, con quel suo aspetto di studioso, l’occhio sereno dietro gli spessi occhiali da miope a stanghette, lo si sarebbe scambiato per un professore di latino. Non era certo l’uomo dalla conversazione gioviale. Era l’uomo del comando e dell’azione. Frasi brevi, parole secche, incisive, gesti risoluti. Quella parola: Avanti! detta e ripetuta ovunque con la caratteristica cadenza del suo accento ligure, bastava da sola a identificarlo, Egli era il generale Avvanti-Avvanti!
In questo motto breve ed energico si compendiava per lui tutta la teoria e la pratica della nostra politica coloniale nell’ardua lotta coi ribelli e certo egli la seppe tradurre in atto col miglior successo.
Fra il giugno e il luglio 1914, alla testa di truppe metropolitane e indigene, marciò per trecento chilometri nel Sud Bengasino, attraverso le tappe vittoriose di Bedafom, di Langal, di Suasi el Gda, fino alla remota zauia ostile di Lektafia, e oltre, verso le pIaghe desertiche della Sirte.
Ma la bufera che si stava addensando sull’Europa aveva fatto ormai rientrare in patria quasi tutti i battaglioni di Cantore. E di lì a poco anche Cantore rimpatriava e andava sulle Alpi a prepararvi e ad attendervi la sua grande ora. Al comando della 3° brigata alpina, passò il confine nel settore Montebaldo-Lessini, occupò il Monte Altissimo e, sceso in val Lagarina, il 27 maggio, dopo vivace combattimento entrò in Ala. Trasferito al comando della 2° divisione in val Boite, il 20 luglio del 1915 mentre si trovava in ricognizione sulle primissime linee del settore delle Tofane, a Forcella Fontana Negra, rimaneva ucciso da una pallottola austriaca che lo colpiva in fronte. Era il primo nostro generale caduto nella guerra 1915-18 e alla sua memoria venne conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Nato a Sampierdarena nel 1860, sottotenente di Fanteria a 20 anni, passò negli alpini da maggiore nel 1898. Quando i reggimenti alpini furono portati da 7 a 8, Cantore fu incaricato di costituire l’8° alpini (battaglioni Gemona, Cividale e Tolmezzo).
Ma l’epopea di Cantore doveva irradiare i suoi primi bagliori in terra di Libia, dove il suo 8° Alpini speciale (battaglioni Susa del 3°, Vestone del 5°, Feltre del 7° e Tolmezzo dell’8°) scrivevano a lettere d’oro il primo capitolo della Storia degli Alpini in guerra.
L’altipiano del Garian, dopo aver visto gli alpini creatori di magnifiche strade aperte per la prima volta al traffico degli autocarri, doveva essere testimonio della prima grande prova di valore che i battaglioni di Cantore, elettrizzati dal vecchio colonnello, davano ad Assaba nella bella e decisiva battaglia in campo aperto il 23 marzo del 1913, giorno della Santa Pasqua. Cantore, dapprima a cavallo, poi, ferito il cavallo, proseguendo a piedi fra le due teste d’avanguardia del Feltre a sinistra e del Tolmezzo a destra, coi suoi due valorosi aiutanti maggiori, capitano Cavarzerani e tenente Carlo Rossi, guidava la battaglia, riducendo alla più semplice espressione i suoi ordini, cioè ad una sola parola; «Avvanti, avvanti!».
La grande vittoria di Assaba aprì la strada all’avanzata trionfale dell’Italia per centinaia di chilometri dal Garian a Jeffren, da Jeffren a Nalut, fino al confine della Tunisia.
Ma un’altra prova attendeva quei battaglioni. L’insuccesso del maggio 1913 in Cirenaica a Sidi Garbaa, induceva il comando a richiamare da Nalut quasi tutte le truppe di Cantore, che lasciatovi il solo Susa, faceva imbarcare l’8° speciale alla volta di Derna. Nella battaglia di Ettangi (13 giugno), gli alpini di Cantore inquadrati con truppe eritree ristabilivano in pochi giorni la situazione riconquistando tutte le posizioni e ricuperando i pezzi di una batteria perduta nel maggio a Sidi Garbaa. Reduce da Ettangi, la colonna Cantore s’imbarcava alla volta di Tobruk, di dove, marciando senza sosta su Ras Mdauar, debellava in un’altra radiosa giornata le ultime resistenze delle truppe di Enver bey, mentre due aeroplani tricolori accompagnavano l’avanzata degli alpini.
Da Tobruk, Cantore passò a Merg, dove succedette nel comando della zona al generale Torelli, caduto a Tecniz. Lo stato maggiore di Cantore al Merg era limitato a tre ufficiali, il capitano Venini (la medaglia d’oro padre di medaglia d’oro e autore dell’inno degli sciatori), il tenente Carlo Rossi aiutante maggiore, e il sottotenente Roberto Olmi interprete di arabo. All’inizio del 1914 dal Merg, Cantore balzò alla presa di El Carruba e alla conquista di Marana. Promosso generale andò a Bengasi dove gli fu affidato il comando delle operazioni nel Sud Bengasino, operazioni ch’egli diresse in modo egregio vincendo non soltanto le insidie dei nemico ma anche gli attacchi cartacei dell’alto comando amico di Bengasi!
Nonostante avesse avuto carta bianca per agire, continuavano a giungergli attraverso una rudimentale stazione radio a scintilla, valanghe di radiogrammi che chiedevano specchi e specchietti di dati più o meno statistici, la cui compilazione materiale avrebbe distratto in permanenza il poco personale del comando, impegnato in attività ben diversa. Cantore decise di ispezionare la stazione Radio. Vi andò solo. Quando gli si presentò sull’attenti il sottufficiale radiotelegrafista, Cantore fu eccezionalmente gentile con lui:
— Stia comodo, sergente. Mi dica un po’. Lei impiega un apparecchio molto delicato e importante, no?
— Certamente sig. Generale.
— Mi faccia un po’ di spiega, sergente. E questo che cos’è e questo tasto a che cosa serve?
Il bravo sottufficiale parlò di triodi amplificatori e di griglie, di circuiti anodici e di induzioni e concluse la sua spiega, mostrando una specie di chiavistello e dicendo:
«Vede, signor Generale, se si perdesse questo semplicissimo pezzetto, l’intera stazione sarebbe ridotta al silenzio».
Cantore dissimulò la sua soddisfazione, fece qualche altra domanda al sergente sul rancio e, approfittando di un momento di distrazione del suo dipendente, con abile mossa tolse il chiavistello dall’apparecchio e se lo mise in tasca. Il sergente lo accompagnò fino al recinto della stazione radio e rientrò soddisfatto di essersela cavata senza un «cicchetto».
La radio tacque per tutta la rimanente durata del ciclo operativo e Cantore, liberato dal disbrigo delle scartoffie, precedette senza intralci alla riconquista di Agedabia e di buona parte del Sud Bengasino.
Alla fine mandò a chiamare il sottufficiale r. t. che da tempo aveva invano segnalato l’inspiegabile scomparsa del chiavistello e, consegnandogli il pezzo, gli disse:
— «Guardi un po’ se è questo quel pezzo che le mancava, me lo sono trovato non so come nelle mie tasche». E gli dettò il dispaccio per Bengasi annunziante la riconquista di Agedabia.
Cantore era un prodigio di attività. A vederlo, con quel suo aspetto di studioso, l’occhio sereno dietro gli spessi occhiali da miope a stanghette, lo si sarebbe scambiato per un professore di latino. Non era certo l’uomo dalla conversazione gioviale. Era l’uomo del comando e dell’azione. Frasi brevi, parole secche, incisive, gesti risoluti. Quella parola: Avanti! detta e ripetuta ovunque con la caratteristica cadenza del suo accento ligure, bastava da sola a identificarlo, Egli era il generale Avvanti-Avvanti!
In questo motto breve ed energico si compendiava per lui tutta la teoria e la pratica della nostra politica coloniale nell’ardua lotta coi ribelli e certo egli la seppe tradurre in atto col miglior successo.
Fra il giugno e il luglio 1914, alla testa di truppe metropolitane e indigene, marciò per trecento chilometri nel Sud Bengasino, attraverso le tappe vittoriose di Bedafom, di Langal, di Suasi el Gda, fino alla remota zauia ostile di Lektafia, e oltre, verso le pIaghe desertiche della Sirte.
Ma la bufera che si stava addensando sull’Europa aveva fatto ormai rientrare in patria quasi tutti i battaglioni di Cantore. E di lì a poco anche Cantore rimpatriava e andava sulle Alpi a prepararvi e ad attendervi la sua grande ora. Al comando della 3° brigata alpina, passò il confine nel settore Montebaldo-Lessini, occupò il Monte Altissimo e, sceso in val Lagarina, il 27 maggio, dopo vivace combattimento entrò in Ala. Trasferito al comando della 2° divisione in val Boite, il 20 luglio del 1915 mentre si trovava in ricognizione sulle primissime linee del settore delle Tofane, a Forcella Fontana Negra, rimaneva ucciso da una pallottola austriaca che lo colpiva in fronte. Era il primo nostro generale caduto nella guerra 1915-18 e alla sua memoria venne conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare.