Don Piero
DON PIERO
Ottobre 2006
Racconto classificatosi al 3° posto all’XIª edizione del concorso nazionale di letteratura breve, indetto dalla Sezione alpini di Treviso e dal Gruppo di Arcade con il patrocinio delle provincia, “Parole attorno al fuoco”, con la seguente motivazione: -Più che la visita del vescovo, per don Piero morente è importante quella dei suoi alpini “andati avanti”. Saranno loro ad accompagnarlo nel viaggio verso “la Luce.” Una scrittura appassionatamente attenta a tutti i particolari che trasforma la storia in un affresco di sapere antico.
DON PIERO
Serata cruda, oggi.
Un vento astioso scende da nord con la corrente del Maè e pela gli aspri declivi della Val Zoldana.
Il cielo è coperto da una coltre di nubi basse e cariche di tristezza. Mulinelli d’aria, insinuandosi tra le fessure delle vecchie imposte, sibilano dentro le stanze della modesta canonica.
Ad intervalli precisi, il campaniletto dalla cuspide a cipolla batte le ore con suono rotondo a scandire il tempo di quel borgo svuotato dall’emigrazione e animato ormai solo da vecchi.
Ma l’anziano parroco non lo può più sentire. I suoi occhi velati dal nulla si fissano oltre la finestra cercando l’infinito. Nel corridoio s’ode il monotono sgranare di rosari e litanie di donne incartapecorite, vestite di nero dalla testa ai piedi.
Una Millecento scura si ferma sul sagrato e il giovane prete alla guida, scostando l’ingombro della tonaca, vi scende con un saltino e tutto premuroso corre dall’altro lato ad aprirne la portiera.
“Ecco Eminenza, siamo arrivati. Di qua, venga.” facendo strada verso l’ingresso della canonica.
L’entrata improvvisa del vescovo smorza le preghiere e le teste velate si piegano a baciarne l’anello pastorale che egli tende.
“È qui Eminenza, dice sottovoce il pretino introducendolo nella camera -non credo però che il parroco possa riconoscerla. Le sue condizioni si sono aggravate.”
“Eh, tutti siamo mortali!- lo interrompe il prelato -D’altra parte ha già passato gli ottanta e bisogna rassegnarsi ai voleri di Dio.”
S’avvicina al letto del morente congiungendo le mani e soffermandosi a guardarne il volto scavato e pallido, ragnato da profonde rughe e punteggiato da ispidi peli bianchi.
“Don Piero... don Piero- lo chiama, e intanto gli posa dolcemente una mano tra i canuti capelli -sono il tuo vescovo.”
Nessun segno di risposta. Allora si fa passare la stola violacea e il vasetto degli Oli Santi.
“Ego te absolvo in nomine Patris et...”
Ma don Piero non vede la mano benedicente, come non sente il tocco lieve dell’estrema unzione, come non ode il vento che lo chiama dal fondo della valle dove saltella il torrente, come non percepisce il pianto delle donne nel corridoio.
Ma sa, lo sa che sta per morire.
Da molto tempo ha preparato il suo cuore ad abbandonarsi sereno e fiducioso nelle mani del Giudice supremo per ricevere la ricompensa del giusto, ma adesso che ne è giunta l’ora vede solo tenebre intorno a sè e si sente smarrito, abbandonato.
Non sa dove andare e il gelo del dubbio più atroce lo ghermisce “A cosa è servito,- pensa sgomento -sacrificare una vita intera per scoprire che alla fine tutto è solo un beffardo, crudele inganno?”
“Il respiro è diventato più affannoso e agitato.” osserva il pretino rivolgendosi al vescovo con tono preoccupato.
Non lo sanno, loro, che il vecchio parroco, in quel momento sospeso tra terra e cielo, non ce la fa a mettersi in cammino da solo e ha paura, tanta, come non ne aveva mai provata prima. Il panico gli saliva dai piedi gelati scavandosi la via verso il cervello dove raggiava l’ultimo barlume di ragione e, mentre avanzava inesorabilmente, s’insinuava nei suoi organi e gli artigliava l’ultima speranza.
Il fischio salì acuto e ricadde sfociando in un gorgheggio che ricordava il richiamo del pastore mentre raggruma il gregge nella transumanza.
“Di qua, venite, svelti svelti. Don Piero, don Piero.” sente chiamare d’improvviso mentre un cono di luce sempre più forte l’avvolge e lo scalda. Minuscole lame di luce, minuscole come polvere di comete passarono le pareti e crebbero fino a diventare un cerchio compatto che lo risucchiò e lo sollevò dal fondo di quel pozzo oscuro e senza fine.
Si scuote “Chi mi chiama? Chi sei?”
“Siamo noi signor tenente, siamo venuti ad accompagnarla, non abbia paura, siamo venuti tutti, si ricorda?”
Attorno al letto vede allora formarsi una schiera di figure diafane e luminose: indossano divise di panno grigioverde e hanno aure che inondano la stanza di bagliori argentei. Sono soldati, i suoi soldati accorsi da ogni luogo per scortarlo e guidarlo nell’ultimo cammino verso la quiete.
“Siete voi? Siete proprio voi?- balbetta confuso e felice insieme -È un grande dono, non lo meritavo... dopo tanti anni... grazie amici, figli miei.”
“Lei è stato il nostro cappellano, ci è stato sempre vicino, ha sofferto e pagato per questo. Ora tocca a noi.”
“Avvicinatevi, fatevi vedere meglio...”
“Si ricorda di me don Piero? Ortigara 16 luglio 1917.”
Certo che ricorda.
Il terreno sotto la cima è cosparso di fantasmi neri e contorti, ombre vaganti di uomini squarciati dalle schwarzlose austriache e deliranti di terrore.
E come se quella carneficina non bastasse s’alza ancora il grido “Alpini avanti, avanti. Savoiaaa!”
Un balzo oltre la trincea e su ancora per la pietraia dell’Agnella, allo scoperto, a spianare l’avvallamento con un ponte fatto di cadaveri e di ossa.
Di tutti quei valorosi quanti sarebbero tornati indietro? E di quelli che riuscivano a salvare la pelle quanti sarebbero sopravvissuti al prossimo assalto? Sentì la disperazione stringergli lo stomaco.
Uno gli si accascia vicino con il ventre squarciato da una scheggia.
“Mamma... mamma...” rantola, e il prete è lì incurante degli schrapnels.
“Padre mi aiuti, non vada via.- geme il giovane alpino artigliando la mano che gli porge da baciare il crocifisso. -Scriva a mia madre, le dica che sono morto pensando a lei... me lo promette don Piero? Me lo promette?”
“Lo farò, ma adesso sta buono che arrivano i barellieri.- e intanto egli piange e prega -Signore mio Dio, dove sei? Ti prego abbi pietà dei tuoi figli.”
Il cappellano asciugò la fronte del ragazzo, gli alzò la testa e lo fece bere alla sua borraccia, gli tenne la mano, cercò i suoi occhi e ve li tenne finché lo sentì volare via per sempre da quell’inferno.
“E di me, si ricorda di me signor tenente?” dice uno uscendo dal fondo della fila.
Don Piero fu costretto a tirare gli occhi per guardare bene chi aveva parlato poi, riconoscendolo, rispose:
“Ma certo, come potrei scordarmi di una testa matta come la tua, granatiere di Sardegna Aligi Cossu. Monte Cengio, giugno 1916. Sfidavi il tiro delle artiglierie per portare in salvo i tuoi amici che erano stati massacrati e gemevano nel Vallone delle Pozze. Poi hanno preso anche te, vero?”
“E tu, Don Piero, venisti a chiudermi gli occhi. La sera stessa, ti ho visto sai?, hai scritto alla mia sposa dicendo che doveva essere fiera di me, che ero un eroe, ed è grazie a te che mi hanno dato la medaglia, eccola qua, la porto ancora sul petto e al mio paese mi hanno pure dedicato una via.”
“Invece ai miei ha dovuto scrivere un sacco di pietose bugie.” fa un altro dalla pelle scura, col capo chino, quasi vergognoso, scostando gli altri per farsi avanti.
Il prete fissò lo sguardo su un soldato minuto che nuotava in una divisa più grande della sua taglia, cercando di ricordare.
“Fante Calisi Salvatore, signor tenente. Presente.”
“Ah tu, povero ragazzo, caro figlio mio. Con te la Patria non è stata madre. A te è toccata la fine peggiore: fucilato per ammutinamento nella dolina di Doberdò in una delle tante decimazioni perché, dopo cento disperati assalti alla baionetta, non volevate più farvi ammazzare per niente sopra i reticolati nemici.”
“In 23 eravamo, quella volta. E tu don Piero piangevi con noi mentre supplicavi in ginocchio il comandante di avere clemenza, che non eravamo dei vigliacchi, che avevamo sempre fatto il nostro dovere, che eravamo solo dilaniati nella carne e nello spirito, che dopo tre anni di trincea volevamo tornare a casa. Per ognuno poi hai scritto alla famiglia raccontando che eravamo stati colpiti in fronte mentre alla testa dei plotoni d’assalto piantavamo il tricolore sulla cima nemica appena conquistata. Lo sai tenente che mia madre teneva quella lettera sotto il cuscino e ogni sera la leggeva tra le lacrime prima di addormentarsi? Grazie per il conforto che le hai dato. Sarebbe morta subito di crepacuore se avesse saputo la verità, che ad ammazzarmi col marchio del disonore erano stati i nostri.”
“Scommetto che a me, invece, non mi riconosce.” esclama un altro soldato, sorridendogli in tono di sfida.
Don Piero frugò nella memoria ma alla fine si scusò schernendosi “Eh bravo, ho più di ottant’anni io, la mia testa non è più la stessa!”
“Sabotino ottobre 1915. Per stanare gli honved ungheresi dalle caverne del monte dovevamo usare i lanciafiamme. Una scheggia rovente colpì il serbatoio che portavo sulla schiena e...”
Il prete si rabbuiò e alzò una mano quasi per scacciare quella scena spaventosa che riaffiorò impietosa e spietata dalle pieghe della memoria.
La vampata folgorò gli abiti del giovane e pelò via dal suo corpo grandi falde di pelle e carne fino ad esporne le ossa. Le fiamme erano così forti che risucchiavano anche le sue urla disumane e la terribile agonia si stampò sulla sua bocca spalancata in un grido silente mentre il corpo si pietrificava in una mostruosa scultura, nera e contorta.
Vincendo l’orrore e il lezzo nauseabondo della carne strinata e carbonizzata, il prete gli corse vicino, sentì il dolore piantarsi dentro fino a scoprire quel posto segreto dove gli uomini nascondono il pianto e...
“E tu don Piero mi baciasti in fronte. Sento ancora lo scorrere dolcissimo delle tue lacrime sul mio volto scarnificato. Come avresti potuto riconoscermi?”
Troppi agnelli aveva visto andare al macello e così, dopo la battaglia della Bainsizza, decise di confidare al suo superiore ecclesiastico tutto il dolore, rabbioso e impotente, che provava ogni volta che era costretto a benedire l’ultimo rantolo di giovani corpi straziati e profanati dalla pazzia umana.
Scrisse che mentre seppelliva i morti gli cresceva sempre più la certezza che un giorno quelle anime sarebbero risorte per accusarlo di non aver fatto nulla per loro.
Non ebbe alcuna risposta ma dopo Caporetto i carabinieri, di notte come si fa con i ladri, lo prelevarono e lo condussero a Padova davanti a un tribunale militare dove un colonnello, altero e tirato in una divisa immacolata e perfetta, con occhietti a spillo e cattivi, sventolando quella lettera gli sputò addosso l’accusa di sovversione e disfattismo.
“Amo i miei soldati più della mia famiglia, più di me stesso.” spiegò, tenendo testa all’infamia.
Le carneficine alle quali aveva assistito avevano talmente dilatato il suo cuore che ora nel più recondito vi trovava posto tutta quell’umanità disperata e dolente.
E don Piero si fece soldato tra i soldati, divenendo per loro l’ultima speranza, l’unico appiglio anche se più fragile di una tela di ragno.
Ma dopo la disfatta ci volevano segnali forti così venne “degradato con ignominia” e spedito a fare il cappellano in un carcere per delinquenti comuni.
E don Piero, recluso anch’egli, si fece carcerato tra i carcerati.
Poi, a completare l’espiazione, eccolo là sepolto e dimenticato in quella sperduta parrocchia della montagna bellunese, agra e magra come i greti dei suoi fiumi.
E don Piero si fece montanaro tra i montanari.
Non era certo quello che aveva sognato quando, molti anni prima, nello scampanio festoso del duomo, tra fumi d’incenso e solenni inni gregoriani, il vescovo invocando su di lui i carismi dello Spirito Santo gli aveva unto il capo.
Ora è sacerdote, è arrivato alla meta. Ecco sua madre, suo padre, i suoi fratelli gli si stringono commossi, lo abbracciano con gli occhi lucenti di gioia e d’orgoglio.
Ora i sacrifici per mantenerlo agli studi non contano più.
Uno di loro ce l’ha fatta, è il riscatto dei poveri, degli ultimi: per lui niente pellagra e calli sulle mani o la valigia di cartone.
E poi arrivano incarichi sempre più prestigiosi che preludono ad una folgorante carriera ecclesiastica. Con un po’ d’invidia, nei corridoi della curia già di lui si parla, nonostante l’ancor giovane età, come di un sicuro monsignore.
Ma era scoppiata la guerra e per tutti fu come fare un salto nel buio.
Come cappellano militare aggregato al 5° alpini, con i soldati aveva diviso la tenda e la latrina, il fango e i pidocchi, il gelo e l’arsura, il tabacco e la gavetta di vino, i canti e la malinconia.
Con loro, giorno dopo giorno, aveva guardato in faccia la morte grifagna, l’aveva vista talmente da vicino che ormai non la temeva più. Alla fine lui ne era uscito vivo, ma prostrato e sconfitto, con il cuore slabbrato e pieno di ferite che non volevano più cicatrizzarsi.
Rivede il motocarro Guzzi che inerpicandosi per tortuose stradine, tra strette valli e forre scoscese, lo aveva portato alla sua nuova destinazione.
Un centinaio di anime in tutto, la chiesa con i banchi tarlati e il tetto d’ardesia che spandeva d’ogni dove. Niente feste per lui, niente bandierine colorate e archi di bambù ad accoglierlo, niente suoni festosi di bande a salutare l’arrivo di quel prete ribelle, prete col cuore di soldato, che veniva dagli orrori della guerra e che forse si era lordato le mani di sangue.
Una storia gelosamente racchiusa nella cassa posta sopra il comò, assieme all’altarino da campo, nei diari, nelle foto e nelle lettere che contiene. Memorie che come tanti rivoli di dolore tengono unita la sua anima agli uomini che ha conosciuto e sepolto sull’Altopiano e sul Carso, ai mutilati di tante battaglie, alle madri incanutite, alle vedove e agli orfani.
Davvero sente di amare ancora, a dispetto dei tanti anni ormai sgranati, quei soldati più della sua famiglia, più di se stesso.
“Signor tenente...don Piero,- lo chiama un alpino grande e grosso con una folta barba che gli incornicia le guance piene –è tardi, è ora di andare. Ecco qua la sua divisa, l’abbiamo tenuta in ordine, ci sono ancora i gradi.”
“Grazie figli miei. Non me lo aspettavo, non lo meritavo, non..” e un groppo di commozione gli serra la gola spegnendogli le parole.
“Lei è stato il nostro cappellano,- si fa avanti un bersagliere allungandogli una mano -l’unico aiuto per noi e i nostri cari. Non lo abbiamo dimenticato, ecco perché siamo tutti qui, gli altri sono fuori lungo la strada. Ci sono anche tanti kaiserschützen e alpenjäger, di qua siamo tutti amici. Ma adesso venga, siamo in ritardo.”
“Perdonami mio Signore e mio Dio per aver dubitato della tua infinita bontà. Sì,- pensò rasserenato -ne valeva proprio la pena, non ho vissuto invano.”
Il corpo ebbe un lieve sussulto mentre il volto si rilassava e la piega della bocca per un attimo sembrò sorridere.
“Ora sono pronto. Andiamo.”
Una folata più forte delle altre sbatté le imposte della camera.
“Il parroco ci ha lasciati.” disse con filo di voce il pretino rivolgendosi al vescovo e alle donne che si fecero il segno della croce.
Furono accese le candele e la stanza fu messa in ordine.
La vecchia cassa fu tolta dal comò e portata in soffitta perché non ingombrasse.
La campana, con tocchi mesti, affidò al vento la notizia che don Piero era tornato al Padre.
Fuori cadeva il crepuscolo, la luce del sole sfumò lentamente e la linea dell’orizzonte si consumò dietro i crinali del Pelmo che coprì la valle col manto nero della sua ombra imponente.
Anche l’aria di tramontana s’era placata e ampi squarci di sereno avevano rotto il cielo plumbeo lasciando trapelare gli ultimi aloni rosati del giorno.
Il pretino accompagnò il vescovo alla Millecento, l’aiutò a salirvi, mise in moto e ripartirono.
Nessuno guardò in alto.
Nessuno si accorse che le stelle, quella sera, palpitavano più vive e luminose che mai.
Giorgio Visentin