Dopo Caporetto
DOPO CAPORETTO A CASTELLO ROGANZUOLO
L’anno della occupazione in un paesino della Sinistra Piave
di Gianfranco Dal Mas
La disastrosa rotta subita dall'esercito italiano nella zona di Caporetto e Tolmino tra il 24 e 25 ottobre 1917 trovò impreparati i nostri comandi. Le autorità militari, prese alla sprovvista e ben presto anche dal panico, non furono in grado di organizzare una evacuazione ordinata della nostra popolazione. Le stesse unità militari furono in molti casi lasciate allo sbando, senza ordini precisi, abbandonando nelle mani del nemico ingente materiale bellico.
Fatti saltare i ponti sul Piave dalle retroguardie dell'esercito italiano ai primi di novembre, tutto il Friuli e parte del Veneto rimasero in mano ai militari austriaci e germanici, che entrarono vincitori in città e paesi presentandosi talora con il volto più crudele e violento dei saccheggiatori.
Guerra e saccheggio, da che mondo è mondo, sono compagni inseparabili, e così la prima fase dell'occupazione militare fu caratterizzata da una devastazione senza freni. I soldati germanici e austro-ungarici (ma soprattutto i primi, più superbi e crudeli) non si accontentavano di dare sfogo alla fame repressa: uccidevano il bestiame, ne consumavano una parte e lasciavano l'altra marcire nella strada; gettavano il grano sotto le zampe dei cavalli; si ubriacavano direttamente alle botti e non si davano nemmeno il disturbo di tapparle dopo essersene serviti, sicché il vino scorreva per le cantine. Il saccheggio metodico non lasciò intatta alcuna casa e la popolazione venne ridotta alla fame. Si racconta che in certi paesi la gente raccattava perfino gli escrementi dei cavalli, nella affannosa ricerca di qualche chicco di granoturco per sfamarsi.
I pochi beni e la vita stessa degli abitanti erano quotidianamente appesi ad un esile filo. Ogni notte c'era il rischio che un gruppo di soldati penetrasse a forza in casa alla ricerca di cibo o per violentare le donne che vi abitavano. Oltre allo stupro notturno, le donne erano spesso oggetto di forme di violenza più "meditate". Povere madri, spesso profughe, che si recavano presso qualche comando locale allo scopo di ottenere un lasciapassare o una tessera annonaria, venivano costrette dagli ufficiali a subire lo sfogo delle loro basse passioni per ottenere ciò di cui avevano assoluto bisogno.
Per il fatto di trovarsi su una importante via di comunicazione, le conseguenze della invasione militare furono, per il mio paese, Castello Roganzuolo, ancora più drammatiche e l'occupazione ancora più dura, essendo questo territorio sottoposto ad amministrazione militare.
In Borgo Gradisca, casa Sanfiori (ora Armellin) era stata requisita ad alloggio per ufficiali. In casa della maestra Cipriani (ora Tonon) c'era invece un comando operativo. Molto più importante doveva essere il comando insediato presso casa Da Dalto: l'aia era stata convertita in fitta rete telefonica, matasse di fili uscivano dalle stanze, diretti verso la prima linea e stesi via via fino al mare. Nel campo antistante casa Sanfiori c'erano quattro forni. Da lì partivano ogni mattina cinque carri pieni di pane, diretti verso le linee del Piave.
La Cavalleria austriaca era alloggiata presso case Fabbris. La villa del Tiziano era sede del comando ed i granai di quella che ora è casa Tonon erano stati trasformati in dormitorio per seicento soldati.
Al sostentamento della truppa e degli ufficiali si provvedeva mediante requisizioni di tutti i generi, dal grano agli animali, dai vestiti alle coperte. E intanto, si legge nella nostra Cronistoria, "la miseria regnava sovrana in ogni famiglia e la gente si cibava di saggina e di erbaggi non conditi".
Venne sfruttata la forza lavoro disponibile per opere infrastrutturali e sussidiarie al servizio delle autorità militari. Il comando operava quotidianamente "levate" di lavoratori, per lo più donne e ragazzi, che venivano costretti a lavorare con ogni clima per dieci o dodici ore, ricevendo in cambio un "rancio orribile per qualità, scarsissimo per quantità". Per la durezza delle condizioni la maggior parte degli abili al lavoro cercava di sfuggirvi e allora le autorità potevano anche ricorrere a vere e proprie "cacce all'uomo" nelle strade.
L'occupazione durò esattamente un anno. Dopo il saccheggio seguito all'invasione, con il raccolto del 1918 la situazione si fece leggermente meno drammatica. Giuseppe Da Dalto (classe 1905, gran parte di questo racconto è frutto della sua straordinaria memoria) aveva allora tredici anni. Assieme al coetaneo Arcangelo Barazzuol, veniva prelevato da un gigantesco soldato bosniaco (bosgnaco). Campo per campo, collina per collina, i due si arrampicavano sui figher e, quando era colmo di frutti, il pesante cesto veniva portato alla mensa degli ufficiali in Borgo Gradisca. Il bosgnaco portava sempre a bacchetta un lungo fucile con baionetta innestata. Lo scopo era duplice: far in modo che i suoi ordini, impartiti in una lingua incomprensibile ai due adolescenti, risultassero comunque perentori e tenere lontana la protesta dei poveri contadini, per i quali quei frutti erano elemento vitale di sostentamento.
Ma non ebbe mai occasione di imbracciarlo quel fucile, il gigantesco soldato: tra la nostra popolazione c'era triste rassegnazione e angosciosa attesa, piuttosto che spirito di ribellione. Ma se la fame era matrice di rassegnazione, la rabbia generò tuttavia una terribile reazione. L'episodio rimane oscuro: a San Fior un soldato germanico aveva preso l'abitudine di entrare in una cantina, dove, riempito un secchio, lasciava poi zampillare il vino dalla botte. Il contadino non poté sopportare a lungo tale scempio di quello che era il prezioso risultato della sua fatica. Un giorno, appostato dietro la porta, attese il soldato all'uscita e lo colpì a morte con una secca e violenta bastonata al capo. I contorni e gli sviluppi dell'episodio non sono mai stati chiariti.
La ritirata dell'esercito italiano e l'avanzata delle truppe occupanti avevano ridotto la strada Pontebbana ad una pozzanghera. Alla sua manutenzione provvedevano i trecento e più prigionieri, militari dell'esercito d'occupazione, detenuti nel complesso del Bacologico, trasformato in carcere.
Si trattava per lo più di ribelli per lo più bosniaci, polacchi e lituani, e ceki. Le loro condizioni erano drammatiche se è vero che non appena si allentava la sorveglianza delle sentinelle scorrazzavano nel torrente Cal dell'acqua alla ricerca di qualche spinarola che poi veniva ingoiata cruda.
La Pontebbana, arteria vitale per gli spostamenti delle unità militari, era anche uno degli obiettivi dall'artiglieria italiana schierata al di là del Piave. A questo proposito si ricorda la vicenda di Giovanni Rosada, che operava come sergente nell'artiglieria "Fortezza". Casualità della storia, cinismo del destino o spietatezza della guerra? Fatto sta che toccò a lui coordinare i tiri di una batteria di "305" schierati a Santa Maria del Rovere di Treviso, sul tratto di Pontebbana a nord di Conegliano. La particolareggiata carta militare che gli stava davanti per i calcoli di tiro riportava le strade, l'ubicazione dei borghi, della chiesa e delle varie chiesette, dei capitelli a lui ben noti, sparsi per la campagna di Castello Roganzuolo. Ma la sua attenzione era tutta su quel piccolo rettangolo nero che stava sulla destra della strada che dal tempio di San Martino portava alla vecchia Pieve. Quella che poi sarà l'osteria Gardin allora era la sua casa, e lì abitavano la madre e la sorella. Trattenendo a stento l'istinto blasfemo contro quel Dio che non aveva voluto evitare una tragedia così devastante, pregava lo stesso che quei colpi cadessero nella vasta campagna deserta, lontano dai tetti e dai muri a lui tanto cari e familiari.
I micidiali proietti da una tonnellata arrivarono squarciando l'aria con sibili lugubri e terrificanti. Le esplosioni, accompagnate da boati tremendi, provocarono nel terreno vistosi crateri che rimasero per molti anni a testimoniare la guerra. Una granata scoppiò in località "buse", un'altra alle pendici della collina di San Fior dopo aver sfiorato villa Soldi-Cadorin; due caddero a breve distanza nei campi sotto la Pontebbana. Un'altra granata ancora fu vista cadere nelle vicinanze di borgo Canè senza esplodere. Quest'ultima però non fu mai ritrovata, nemmeno quando, recentemente, per motivi di sicurezza prima della costruzione di un fabbricato, furono eseguite accurate ricerche da un gruppo di tecnici intervenuti sul posto con sofisticati metal-detector. Inghiottita dalla terra quasi a celare, per una volta, la barbarie della guerra.
Dopo Caporetto nella maggior parte dei casi la popolazione rimasta si trovò allo sbando, senza guide e senza regole, vivendo una situazione assolutamente precaria, e preoccupata unicamente della propria sopravvivenza.
Alla disfatta dell'esercito si era aggiunta infatti quella che gli storici chiamano la "Caporetto interna" e cioè la fuga, al di là del Piave, della classe dirigente politico-amministrativa, cui si era unita la maggior parte dei "signori". Se esodo ci fu, quindi, non si trattò di esodo di massa ma di classe. Fuggirono i ricchi e rimasero i poveri, cioè coloro che non avevano nulla da mettere in salvo né sapevano dove rifugiarsi. Con loro rimase la maggior parte dei parroci, a rivendicare con forza il proprio ruolo di difensori degli oppressi e dei deboli, e di pastori fidati della comunità rurale e dei suoi valori.
In poche parole scapparono i sindaci, ma non i parroci. Ma se gli uni furono accusati di viltà e tradimento, gli altri lo furono di "austriacantismo" e collaborazionismo. Era inevitabile d'altronde che, in condizioni così estreme, spesso coloro cui era toccato di gestire o proteggere una comunità scendessero a patti con l'invasore o cercassero di evitare scontri aperti, stante l'assoluta disparità di forze.
E in questo intreccio di viltà e coraggio emerse a Castello Roganzuolo una figura nobilissima, quella di Monsignor Giovanni Pizzinato.
Il suo operato fu al di sopra di ogni sospetto. Egli scelse di rimanere con la popolazione per condividerne tutti i dolori morali e materiali e, con generosità e coraggio, si assoggettò al delicato e difficile compito di provvederle alimenti, di difenderla e proteggerla per quanto era nelle sue possibilità. Pagò poi questa sua scelta con la deportazione e la dura prigionia.
Nella "Cronistoria parrocchiale" don Pizzinato raccontò i saccheggi e le sofferenze dei parrocchiani durante gli interminabili mesi di occupazione. Finì che il 22 luglio del 1918 il sacerdote fu internato nel carcere di Spilimbergo con l'accusa di organizzare spionaggi a favore degli Italiani. Veniva inoltre incolpato di aver chiesto con troppa insistenza grano al Comando per la popolazione affamata; di aver pregato con troppo ardore che fosse lasciato il frumento nelle famiglie; di aver raccomandato alle giovani di non aver soverchia familiarità con i soldati; di non aver rivelato dove era nascosto il prezioso trittico del Tiziano; di essere salito sul campanile.
Dall'ultimo capo d'accusa risulta chiaro che l'operato di don Pizzinato era sottoposto a controllo. Le spie erano due sorelle di venti e ventidue anni, abitanti in borgo Gradisca, citate peraltro da don Pizzinato nella Cronistoria: "...Due ragazze di pessima fama cercarono di sapere dov'era il trittico per isvelarlo ai tedeschi...".
Il padre di queste era rientrato anni prima dalla Germania, dopo esservi vissuto a lungo come lavoratore emigrante. Aveva portato con sé le due figlie, che la gente aveva soprannominato "le todesche" e che non si erano mai integrate in paese . Favorite dalla conoscenza della lingua, queste avevano subito familiarizzato con gli ufficiali tedeschi, con cui si intrattenevano negli alloggi del comando.
Don Giovanni poi era divenuto sempre più inviso ai tedeschi non solo per essersi schierato a difesa della popolazione, ma soprattutto per l'alta e dignitosa affermazione della sua italianità. Nei sette interrogatori che dovette subire infatti, quando gli veniva chiesto dove fosse nascosto il trittico, la sua risposta era sempre la stessa: «Le pale del Tiziano sono in Italia». Sapendo che le stesse erano nascoste nel soffitto della sua chiesa, si compiaceva del fatto che la sua sibillina risposta non fosse una bugia.
Il primo novembre 1918, dopo tre mesi di carcere duro, approfittando del precipitare degli eventi don Giovanni riuscì a fuggire da Spilimbergo e due giorni dopo arrivò a Castello "in mezzo all'entusiasmo del popolo".
Intanto il 30 ottobre era entrata in paese, "tra l'esultanza delirante della popolazione", la Brigata Sassari.
Nulla si dice però nella Cronistoria circa il triste epilogo di quella giornata. Passando per borgo Gradisca i Sassarini avevano catturato le due giovani sorelle. Trascinate fino al Bacologico, erano state gettate a terra, schernite e vilipese. Non si perdonò loro l'essersi concesse a certi bisogni della truppa occupante, infamia di cui la più giovane portava evidenti i segni nel grembo.
Furono freddate con un colpo alla nuca, vittime anch'esse della guerra, cadute senza lapide e senza nome.