Francesco Giacuz
FRANCESCO GIACUZ
LA MIA VITA DA MILITARE 2 MARZO 1940 — 8 SETTEMBRE 1943
LA MIA VITA DA MILITARE 2 MARZO 1940 — 8 SETTEMBRE 1943
Fiamme Verdi Dicembre 2006
Giacuz Francesco, Artigliere Alpino del gruppo Val Tagliamento del 3° Reggimento Artiglieria Alpina Julia
Il 7 aprile 1939 la divisione alpina “Julia” con altre divisioni dell’esercito italiano occuparono, con il consenso del Governo di Tirana, l’Albania senza spargimento di sangue. Seguì l’arruolamento per il gruppo “Conegliano” del 3° Reggimento Artiglieria Alpina. Parte degli arruolati, con il passare dei mesi, andò a sostituire i malati o gli anziani di sosta in Albania. L’altra parte, invece, venne incorporata nel nuovo raggruppamento: “1° Gruppo Alpini Valle” nell’ottobre del 1939. Lo Stesso era costituito da tre Battaglioni di Alpini e un gruppo di Artiglieria Alpina.
I tre Battaglioni erano: il Val Tagliamento, il Val Fella, il Val Natisone” e il gruppo “Val Tagliamento Artiglieria Alpina”.
La mia chiamata alle armi risale al 2 marzo 1940 e venni assegnato al gruppo Val Tagliamento composto da tre batterie: la 41°, la 42°, la 43°, a tolmezzo, Caserma Cantore. Nei mesi che vanno da marzo a maggio del 1940 si fecero le solite esercitazioni. Nei primi giorni di giugno la vera faticosa vita militare: “il campo estivo”.
L avventura iniziò a Tolmezzo, alla stazione della Carnia, seguì a Chiusaforte, Sella Nevea, Plezzo e a Sonzia Nalogo, località situate ai confini con la ex Jugoslavia. In luglio venni scelto con altri artiglieri e alpini per una missione impegnativa sul monte Osebivih, con il compito di controllare il movimento degli slavi, In ottobre rientrai a Tolmezzo, in previsione del piano stabilito dal governo monarchico fascista (IL PRIMO DEBOLE, IL DUCE MEGALOMANE!). L’obiettivo era di invadere la Grecia.
Il 28 ottobre 1940, come prestabilito, iniziò l’aggressione più ingiustificata al popolo greco.
Dopo alcuni giorni di sfondamento le divisioni italiane dovettero ripiegare. La divisione Julia, subì accerchiamenti e perdite: uomini caduti e molti di loro furono fatti prigionieri dall’agguerrito esercito greco, che conquistò Argirocastro, città albanese ai confini con la Grecia.
Il comando supremo dell’esercito, vista la situazione, inviò con aerei e navi truppe e materiale bellico,
Il primo gruppo Alpini Valle, cui facevo parte, l’8 novembre del 1940, venne fatto intervenire e iniziò così, con aerei, il trasporto dei 3 battaglioni, verso il fronte greco-albanese. L’11 novembre 1940, parte da Udine, una lunga tradotta del gruppo Val Tagliamento carica di uomini, cannoni e 400 muli, e materiale vario. Al mattino del 12 novembre 1940 arrivammo a Brindisi e sostammo in una località periferica per circa un mese. Nei primi giorni di dicembre ci imbarcammo, ma, una consistente forza di uomini e muli rimase in Puglia per la limitata capienza della nave. Al mattino avvenne lo sbarco al porto di Valona, accolto da un nutrito bombardamento aereo britannico. Fu immediata la reazione di una squadriglia di “picchiatelli”, partiti dalla base di Bari che allontanò gli aerei nemici. Ultimato lo sbarco, ci avviammo verso il fronte che distava una quarantina di chilometri.
A Ducai, località albanese. si stabilì il comando del raggruppamento, il centro smistamento dei muli occorrenti per il trasporto di cannoni, munizioni e vettovagliamento.
Ancora qualche giorno di addestramento, quindi l’inizio di una lunga guerra durata quasi cinque mesi, combattuta sull’impervio massiccio del monte Dutiche (1900 metri d’altezza). Le nostre batterie martellarono ogni notte con gli obici 75/13, le postazioni nemiche, in difesa di Tepeleni, città contesa e il monte Golico, per proteggere i nostri battaglioni, impegnati in continui e sanguinosi combattimenti. In questo duello estenuante di batterie italiane e greche primeggiò il capitano Carlo Buttiglione, comandante della 43° batteria.
Nei giorni 7 e 8 gennaio 1941, nella piana di Malipaci, lo stesso alla guida di una pattuglia di bersaglieri andò alla conquista di un’importante postazione nemica per installare la sua batteria. Fu un’impresa fatale, ucciso, il corpo venne gettato in un burrone. Recuperato, venne inviato in Italia e gli fu conferita la medaglia d’oro.
Nonostante questo tragico episodio, la guerra continuava nelle località di Pogonat, Nivice, Gusmare, Malipaci.
Una nota storica riguarda la figura di Don Carlo Gnocchi, aggregato al nostro raggruppamento dal novembre 1940 al dicembre 1941, come cappellano del battaglione Val Tagliamento.
Gennaio e febbraio 1941 sono da ricordare, oltre che per i combattimenti sulle montagne dell’Epiro, anche per il gelido freddo che per lungo tempo raggiunse i meno 28 gradi, creando, ai già provati artiglieri, congelamenti, bronchiti, polmoniti, con conseguenti rientri in patria. Tanti portarono per tutta la loro vita le conseguenze.
Diciottomila caduti furono il tragico bilancio dell’assurda campagna di Grecia. Ai caduti “onore e gloria”.
Dopo alternanze di esiti negativi e positivi per entrambi gli schieramenti, alla fine del mese di aprile del 1941, arrivò la sospirata fine del conflitto, grazie anche all’intervento di una colonna corazzata tedesca, partita dalla Bulgaria, che sorprese il nemico.
Riconquistata Argirocastro, la divisione Julia e il primo gruppo Alpini Valle, si ricongiunsero sul lago di Janina, prima città della Grecia. Qui, nel maggio 1941, ebbi la fortuna di incontrare il generale Mario Girotti, comandante della Julia, campagna greco-albanese, che mi premiò con un distintivo-ricordo, che gelosamente conservo.
Il 21 giugno 1941, le armate tedesche invasero la Russia. I popoli slavi, di Serbia e Montenegro, solidali con la loro madre patria, iniziarono contro gli occupanti, tedeschi e italiani, una delle più feroci guerriglie che la storia ricordi. I tre battaglioni e il gruppo artiglieria Val Tagliamento partirono per il Nord dell’Albania. La prima tappa fu Scutari, dopo 400 km da Janina, e qui si fermarono per un paio di mesi. Nell’ottobre dello stesso anno, iniziò per noi, il secondo conflitto, molto più insidioso, Venne rastrellata Podgorica, capitale del Montenegro. Dopo di che, ci avviammo per 150 km verso la Bosnia- Erzegovina, nella città di Visigrad. dove ci fermammo fino all’agosto del 1942, il centro con circa 50.000 abitanti, di cui il 90% musulmano, era attraversato dal fiume Drina. Questo periodo non potrà mai essere dimenticato da coloro che lo vissero in prima persona, a causa delle atrocità inflitte dai serbi e croatì ai musulmani.
Dal 1941 al 1945 ci fu una continua carneficina: 2.500.000 morti, di cui 2.000.000 tra le varie etnie, 500.000 tra gli occupanti.
Furono due i fatti particolarmente rilevanti: l’odio atavico dei serbi verso i turchi musulmani.
Il primo: da alcuni mesi mi trovavo con altri artiglieri in una postazione avanzata con il compito di controllare l’entrata e l’uscita da Visigrad della popolazione. Un giorno si avvicina un capo dei Cetnici, un ingegnere, che ho avuto l’opportunità di conoscere personalmente, mi disse: Franz, domani ammazzerò una vitella. Se vieni a trovarmi te ne regalerò una parte, perché voi italiani siete brava gente, diversamente dai tedeschi.”
All’indomani, con due artiglieri mi inoltrai tra la boscaglia, a noi nota per i vari rastrellamenti effettuati, ed entrai nella baita e vedemmo muri tappezzati di armi e bombe a mano: un vero arsenale!
Il comandante ci offrì un tè, e l’amico cetnico, mi consegnò in una cesta una ventina di chili di carne. Parlava bene l’italiano, e io avevo imparato discretamente il serbo e questo ci ha permesso di conoscerci. Ci salutammo scambiandoci gli auguri pasquali, 1 miei amici erano stupiti per tanta bontà. L’ingegnere prima del commiato mi disse: “Franz, ti ho fatto questo dono, tu in cambio devi darmi un musulmano maschio”.
In una situazione simile non sapevo come reagire, ma alla fine ho acconsentito. Durante il viaggio di ritorno ho raccontato della richiesta avanzata, ma ho anche assicurato che non lo avrei mai accontentato.
Alcuni giorni dopo il cetnico, venne a trovarmi e mi domandò del musulmano, Con forza gli comunico che la sua richiesta era assurda, lui capì e se ne andò.
Nell’aprile del 1942, durante la Pasqua ortodossa, vicino alla nostra postazione viveva una famiglia serba. Il padre era un capo forestale, il figlio studiava all’università, ed era un partigiano di Tito, la moglie casalinga, la figlia Rada era studentessa di lingue straniere: inglese e italiano. Ogni settimana le facevo visita e ci scambiavamo progetti per il futuro.
A Pasqua, io ed un amico fummo invitati a pranzo, e alla fine brindammo con la rachia, una loro bevanda popolare. Prima di salutarsi, Rada mi rivolse una domanda inaspettata: “Franz, sei cattolico?”, le risposi: “si!, ogni sera prego il mio Dio che metta fine a questa tragedia”. E lei, con tono sostenuto: “io, ogni sera chiedo a Dio che ci dia la possibilità di vendicarci della sconfitta subita il 28 giugno 1388 a Pristina ad opera dei turchi”.
Questi due episodi. sono la conferma dell’odio secolare tutt’ora esistente tra questi due popoli.
Durante il mese di agosto del 1942, termina la nostra odissea balcanica e rientrammo con una tradotta, attraversando la Serbia e la Croazia, nella nostra amata Italia. Sostammo a Fiume per quaranta giorni per curarci da sospette infezioni contratte in ventun mesi in Albania e nei Balcani.
Alla fine di settembre dello stesso anno, nuova destinazione era Ivrea, a metà dicembre partenza per la Francia. Scalammo il Piccolo San Bernardo con oltre un metro di neve, attraversammo l’Alta Savoia e ci fermammo a Grenoble, con l’obiettivo di sostenere l’occupazione tedesca.
A metà gennaio del 1943 rientrai frettolosamente in Italia destinato ad una nuova missione: la Russia. in quel periodo però era già iniziata la tragica ritirata dell’Armir: sostai a Bistagno, in Piemonte.
Il 25 luglio del 1943 crollò il governo fascista. Ci inviarono a presidiare lo stabilimento FIAT, per pericolo di insurrezioni popolari. Cessato il pericolo di tumulti, il comando militare ordinò l’ultimo spostamento a Nimis, in Friuli. Qui, l’8 settembre fu uno dei giorni più umilianti della mia vita militare. Il re e il comando supremo delle forze armate fuggirono abbandonandoci a noi stessi.
I miei nipoti e un alpino, figlio di un mio compagno di Santa Lucia di Piave, morto vent’anni fa, mi hanno convinto a scrivere l’avventurosa storia militare vissuta.
Come migliaia di combattenti, ho solo fatto il mio dovere di servire la “Patria”, l’Italia.