Gino Collet
Gino Collet: l’imperativo morale di tramandare la memoria
Gino Collet è andato avanti il 21 gennaio 2018, alla soglia dei 94 anni, compianto da tutti per la sua onestà e sensibilità sociale.
Classe 1924, l’ultima ad essere richiamata durante la seconda guerra mondiale, Collet fu destinato al 7° Reggimento Alpini Battaglione “Cadore”. Apparteneva a quella schiera di giovani che si erano rifiutati di aderire alla Repubblica di Salò. Venne disarmato dai tedeschi in una caserma di Schio.
Dopo una breve sosta a Mantova, fu condotto nello Stammlager II A di Neobrandeburg. Fu tra quelli che ebbero la fortuna di far ritorno, benché estremamente provato moralmente e fisicamente. Gino era una figura molto popolare a Pieve.
Al rientro, la sua vita fu divisa tra i suoi grandi amori: la famiglia ed il calcio. Una passione che lo vide vestire i panni di dirigente ed allenatore della prima squadra di Pieve, l’A.C. Pievigina. Ma la sua persona era nota anche in ambito scolastico, di cui spesso era ospite. Generazioni di scolari e studenti si sono lasciati coinvolgere sentendolo raccontare le sue testimonianze sui lager e sulle pagine più orrende del secondo conflitto mondiale.
“Sento l’imperativo morale, diceva, di tramandare la memoria degli orrori che abbiamo vissuto, perché le nuove generazioni non abbiano a ripeterli”. Una volontà, quasi una missione, che spinse Collet, non ancora anziano, a testimoniare in un diario il “periodo tremendo” vissuto nei campi di concentramento. Collet scrive per i famigliari e gli amici “affinché sappiano apprezzare il tempo in cui vivono lontano dalle guerre, sappiano ricordare che le comodità e il benessere di oggi sono forse il frutto dei sacrifici della sua generazione e si adoperino perché non ci siano più reticolati nel mondo e i popoli abbiano a vivere senza odio e discriminazioni”. Appelli che sembrerebbero oggi quasi intrisi di retorica se non fossero supportati da una grande autorevolezza morale di chi aveva vissuto una storia “piena di avvenimenti difficili, di sacrifici, umiliazioni, privazioni”.
Il diario di Collet è interessante e toccante. Eppure l’autore sembra talvolta quasi non lasciarsi coinvolgere dalla narrazione, un meccanismo di difesa per attenuare le sofferenze del ricordo. “Al mio rientro, dice verso la fine, avevo tutte le notti degli incubi. Sognavo gli estenuanti appelli con la chiamata del mio numero 102153 del mio primo campo. E quanta gioia al mio risveglio, trovandomi a casa coi miei cari”. I momenti tragici ci sono tutti. I tre giorni di viaggio nei carri bestiame, in 60 per ogni vagone, i finestrini sbarrati coi reticolati, dormendo uno sull’altro come bestie. L’arrivo al primo campo, la cittadina di Neobrandergh, con la gente che urlava loro “Badogliani” e i bambini che sputavano loro addosso.
La vita tragica nei lavori forzati con un vitto di tre patate lese, un tozzo di pane nero e un pezzo di salame scuro fatto col sangue di bestia. Poi l’appello ad arruolarsi nell’esercito tedesco e qui i soldati italiani danno una vera prova di lealtà: nel campo italiano solo una trentina su 5.000 aderiscono a quella proposta che li avrebbe liberati dal rischio di diventare come gli “scheletri ambulanti” del vicino campo di prigionieri russi additati loro dai tedeschi. Il trasferimento al lager VI G presso Bonn è il periodo più tragico.
A Gino mancano le forze, causa il lavoro estenuante e il cibo nauseabondo. Per fortuna una ferita alla mano gli consente di passare qualche giorno in infermeria, dove si riprende. Si passa quindi nel lager al di là del Reno, a battere la ghiaia sotto i binari.
Siamo nel periodo dell’attentato a Hitler e qui il pericolo maggiore era rappresentato dai bombardamenti degli alleati: in quello del 18 luglio 1944 la sua fabbrica viene bombardata e Gino riesce a salvarsi col solo suo zaino. Un aspetto che colpisce del diario è che Collet non manifesta mai sentimenti di rancore e di odio per i tedeschi, pur descrivendone le brutalità. Il suo era un animo puro, umanamente purificato dall’immane sofferenza. Non stupisce che egli scriva di essere stato trattato dignitosamente da diverse famiglie di tedeschi civili in cui gli era stato ordinato di lavorare, dove il vitto era soddisfacente e ci si poteva almeno riempire la pancia di patate.
Il diario naturalmente descrive anche le infinite vicissitudini del ritorno con l’abbraccio, “lungo e commovente”, con la madre e i fratelli. Un rientro che comportò anche qualche amarezza: “Nei primi tempi la gente non credeva alla brutalità e alla durezza del trattamento che avevamo avuto in Germania e questo fu per noi motivo di grande delusione. Solo successivamente capì il sacrificio ed il prezzo della nostra rinuncia a collaborare tra le file della Repubblica Sociale Italiana”.