Gino Tonon e Pino Zambon
GINO TONON e PINO ZAMBON: 90 ANNI DA ALPINI
Fiamme Verdi Luglio 2005Gino Tonon con l'inseparabile "mussetta Bianca" e Pino Zambon
Gli alpini di San Fior hanno festeggiato con due diversi incontri i soci più anziani del Gruppo: Pino Zambon, classe 1914, e Gino Tonon, classe 1915.
Novant’anni splendidamente portati da entrambi, presenti a tutte le manifestazioni, ed un Gruppo che non perde occasione per far sentire ai due veci caloroso affetto.
Gino e Pino sono accomunati da una vita di duro lavoro, da un grande attaccamento alla penna, da uno straordinario ottimismo, nonostante la loro esistenza sia costellata di episodi molto tristi, e dalla convinzione che l’amicizia è un bene grande e prezioso. “Ci avete insegnato che quando la vita si fa dura bisogna tirar fuori spirito, carattere e coraggio e non arrendersi mai - c’era scritto nella pergamena donata in ricordo dal Gruppo
- ed è anche perché ci sono i veci come voi che gli alpini sono fieri di portare il cappello.”
Naturalmente i due hanno vissuto la tragedia della guerra. E a tal proposito di vicende ne hanno da raccontare.
Novant’anni splendidamente portati da entrambi, presenti a tutte le manifestazioni, ed un Gruppo che non perde occasione per far sentire ai due veci caloroso affetto.
Gino e Pino sono accomunati da una vita di duro lavoro, da un grande attaccamento alla penna, da uno straordinario ottimismo, nonostante la loro esistenza sia costellata di episodi molto tristi, e dalla convinzione che l’amicizia è un bene grande e prezioso. “Ci avete insegnato che quando la vita si fa dura bisogna tirar fuori spirito, carattere e coraggio e non arrendersi mai - c’era scritto nella pergamena donata in ricordo dal Gruppo
- ed è anche perché ci sono i veci come voi che gli alpini sono fieri di portare il cappello.”
Naturalmente i due hanno vissuto la tragedia della guerra. E a tal proposito di vicende ne hanno da raccontare.
In Russia Pino Zambon è stato protagonista di una ritirata sulla neve in solitaria. Nel dicembre del ‘35 aveva preso parte alla campagna d’Africa. Ritornato nel ‘40 era stato richiamato e successivamente, con il reparto salmerie del 3° Artiglieria da Montagna, partiva per la terra di Russia a compiere quella che la propaganda aveva descritto come una improrogabile formalità, e cioè ”l’annientamento dell’unione Sovietica e l’eliminazione del bolscevismo”.
Una sera d’inverno arrivò, improvviso, l’ordine di ritirata e Pino si trovò parte di una lunga colonna grigioverde che camminava al buio, puntando verso ovest.
Così tutta la notte, ed il giorno dopo, ed un’altra notte ancora, perché, per uscire dall’accerchiamento dei russi, non bisognava fermarsi.
All’alba, raffiche improvvise di mitraglia, provenienti da tiratori invisibili appostati su una collina, seminarono il panico nella colonna, divenuta facile bersaglio. I muli imbizzarriti dal fragore e dal trambusto, partirono, lanciandosi al galoppo e trascinando le slitte, mentre il loro carico si rovesciava travolgendo gli uomini. In questa fuga disordinata ognuno prese una sua direzione, e la colonna si disgregò. Pino si trovò sulla slitta trainata dal suo mulo, Gigi, al galoppo senza sosta verso il biancore della steppa, spronandolo ed incitandolo con quanta forza aveva in corpa E dopo una corsa interminabile, scoprì di essere solo nella bianca vastità della pianura.
Ora incominciava la sua guerra, quella che avrebbe dovuto combattere da solo nell’inferno bianco di quella terra sconosciuta per portare a casa la pelle.
Stremato dalla lunga galoppata, Gigi stramazzò sulle neve. Pino tentò di rialzarlo ma, al contatto con il gelo, il povero animale si era irrigidito. Lo accarezzò amorevolmente, avvolse la grande coperta bianca del mulo attorno allo zaino e, adoperando il fucile 91 come bastone, si incamminò nella neve senza più voltarsi.
Non sapeva quale fosse la via giusta, ma riuscì ben presto ad intuirla, seguendo la direzione di una squadriglia di stukas tedeschi che si dirigevano verso il Don.
Camminò per giorni e giorni in mezzo alla tormenta, con il freddo che in quel terribile inverno scese nella bianca pianura anche sotto i meno quaranta.
Di notte si fermava in qualche magazzino abbandonato, avvolgendosi nella coperta di spessa lana. Se non trovava ricovero, camminava anche di notte, sotto quel mare di stelle che, a poco a poco, aveva imparato a leggere per orientarsi. Nel buio camminare voleva dire essere vivo, fermarsi avrebbe significato morire.
Più di una volta, per non rimanere sorpreso dai piccoli aerei ricognitori russi, si distese sotto la bianca coperta che lo mimetizzava perfettamente nella neve.
Dopo alcuni giorni Pino si accodò ad una colonna di romeni in ritirata, standosene sempre a ragguardevole distanza. Era la marcia disordinata di un fiume nerastro in mezzo alla neve.
Ma era ridotto allo stremo, i piedi inciampavano, privi di sensibilità, essendo diventati ormai pezzi di ghiaccio sospinti solo dalla disperazione. E quando stava per arrendersi, vinto dalla spossatezza, un giorno comparve un villaggio dove, al di sopra dei tetti, pennacchi di fumo si alzavano nel cielo terso e freddissimo. Era la fine di un incubo, diciotto giorni dopo quel 16 gennaio 1943 in cui era stato dato l’ordine di ritirata.
Oggi Pino Zambon è un uomo che, avendo partecipato alla campagna d’Africa e di Russia, sa quanto sia grande il bene della pace. A ricordo di quella lunga “passeggiata” in mezzo all’inferno bianco ci sono due dita di un piede in meno e quella bianca coperta da cui non si è mai voluto separare.
Malgrado il tempo trascorso, un paesaggio innevato o un coro alpino fanno affiorare in lui immagini nitide, precise ed indelebili: il biancore della steppa, i silenzi immensi, rotti dallo stridere della neve sotto i piedi, e quelle stelle che sembravano scintille nel grande cielo di Russia.
Una sera d’inverno arrivò, improvviso, l’ordine di ritirata e Pino si trovò parte di una lunga colonna grigioverde che camminava al buio, puntando verso ovest.
Così tutta la notte, ed il giorno dopo, ed un’altra notte ancora, perché, per uscire dall’accerchiamento dei russi, non bisognava fermarsi.
All’alba, raffiche improvvise di mitraglia, provenienti da tiratori invisibili appostati su una collina, seminarono il panico nella colonna, divenuta facile bersaglio. I muli imbizzarriti dal fragore e dal trambusto, partirono, lanciandosi al galoppo e trascinando le slitte, mentre il loro carico si rovesciava travolgendo gli uomini. In questa fuga disordinata ognuno prese una sua direzione, e la colonna si disgregò. Pino si trovò sulla slitta trainata dal suo mulo, Gigi, al galoppo senza sosta verso il biancore della steppa, spronandolo ed incitandolo con quanta forza aveva in corpa E dopo una corsa interminabile, scoprì di essere solo nella bianca vastità della pianura.
Ora incominciava la sua guerra, quella che avrebbe dovuto combattere da solo nell’inferno bianco di quella terra sconosciuta per portare a casa la pelle.
Stremato dalla lunga galoppata, Gigi stramazzò sulle neve. Pino tentò di rialzarlo ma, al contatto con il gelo, il povero animale si era irrigidito. Lo accarezzò amorevolmente, avvolse la grande coperta bianca del mulo attorno allo zaino e, adoperando il fucile 91 come bastone, si incamminò nella neve senza più voltarsi.
Non sapeva quale fosse la via giusta, ma riuscì ben presto ad intuirla, seguendo la direzione di una squadriglia di stukas tedeschi che si dirigevano verso il Don.
Camminò per giorni e giorni in mezzo alla tormenta, con il freddo che in quel terribile inverno scese nella bianca pianura anche sotto i meno quaranta.
Di notte si fermava in qualche magazzino abbandonato, avvolgendosi nella coperta di spessa lana. Se non trovava ricovero, camminava anche di notte, sotto quel mare di stelle che, a poco a poco, aveva imparato a leggere per orientarsi. Nel buio camminare voleva dire essere vivo, fermarsi avrebbe significato morire.
Più di una volta, per non rimanere sorpreso dai piccoli aerei ricognitori russi, si distese sotto la bianca coperta che lo mimetizzava perfettamente nella neve.
Dopo alcuni giorni Pino si accodò ad una colonna di romeni in ritirata, standosene sempre a ragguardevole distanza. Era la marcia disordinata di un fiume nerastro in mezzo alla neve.
Ma era ridotto allo stremo, i piedi inciampavano, privi di sensibilità, essendo diventati ormai pezzi di ghiaccio sospinti solo dalla disperazione. E quando stava per arrendersi, vinto dalla spossatezza, un giorno comparve un villaggio dove, al di sopra dei tetti, pennacchi di fumo si alzavano nel cielo terso e freddissimo. Era la fine di un incubo, diciotto giorni dopo quel 16 gennaio 1943 in cui era stato dato l’ordine di ritirata.
Oggi Pino Zambon è un uomo che, avendo partecipato alla campagna d’Africa e di Russia, sa quanto sia grande il bene della pace. A ricordo di quella lunga “passeggiata” in mezzo all’inferno bianco ci sono due dita di un piede in meno e quella bianca coperta da cui non si è mai voluto separare.
Malgrado il tempo trascorso, un paesaggio innevato o un coro alpino fanno affiorare in lui immagini nitide, precise ed indelebili: il biancore della steppa, i silenzi immensi, rotti dallo stridere della neve sotto i piedi, e quelle stelle che sembravano scintille nel grande cielo di Russia.
Completamente diversa la vicenda di Gino Tonon.
Gino si era fatto prima il fronte francese, poi Grecia ed Albania (era del 7° Alpini e ricorda il ponte di Perati e le difficoltà nell’attraversarlo per la presenza di cecchini nemici) poi ancora la Francia. Proprio a Mentone era stato sorpreso dall’8 settembre, e la fuga a piedi si era conclusa a Limone, dove veniva catturato dai tedeschi con tutto il suo reparto. Il viaggio fino al Brennero, effettuato su comodi vagoni passeggeri, era sembrato una gita di piacere. Gino ricorda che in certi tratti i macchinisti italiani rallentavano la corsa del treno per permettere a chi ne avesse il coraggio di lanciarsi fuori: ma i tedeschi sparavano. Al Brennero durante il rancio un tedesco disse che li stavano trasportando ad lnnsbruk per ucciderli tutti. Gino se la ricorda la reazione degli italiani: smisero di mangiare.
Poi il viaggio proseguì all’interno dei carri bestiame, quelli con la scritta “cavalli 8 uomini 40”, fino a Norimberga in un campo immenso di prigionia. Lì si mangiava benissimo, la carne faceva la sua comparsa mezzogiorno e sera, fino al giorno in cui i tedeschi chiesero se qualcuno voleva combattere volontario al loro fianco.
Pochissimi accettarono. Poi tutto cambiò e la carne sparì. Iniziò il duro lavoro nelle fabbriche tedesche regolato da una ferrea disciplina. Si mangiava poco, ma Gino ebbe la fortuna di andare a lavorare in un zuccherificio. Conosceva il tedesco, avendo lavorato nel ‘38 in Germania come stagionale, e poi diceva sempre di essere cuoco di professione. E cosi non patì mai la fame. La moglie ricorda che se ne era tornato dalla prigionia bello in carne meglio di quando era partito.
Naturalmente pensava anche ai suoi amici del campo meno fortunati impegnati altrove (la maggior parte lavorava a Norimberga in una immensa fabbrica di aerei dalla quale ogni giorno uscivano 30 velivoli) e non lasciava mai lo zuccherificio senza aver occultato un po’ di zucchero in apposite fodere dei pantaloni. Ma se lo scoprivano erano guai.
Gino si recava spesso nelle campagne per prelevare le bietole. In tali occasioni con le bietole mescolava qualche patata rubata alle zolle, che veniva poi cotta assieme e poi consumata a parte, tanto per interrompere la dieta dello zucchero. Fu una bella esperienza quella della raccolta delle bietole. Con grande stupore scoprì che i tedeschi mangiavano più volte nel corso della giornata. Le famiglie, come del resto ogni famiglia germanica di allora, contavano solo donne, vecchi e bambini, uomini non ce n’erano. Gino ebbe la sensazione di gente gentile e veramente molto buona. Elaborò così dentro di sé la teoria che fosse la divisa, quella maledetta divisa, una volta indossata, a far diventare cattivi i tedeschi.
Finita la guerra, dalla Germania Gino tornò a casa a piedi. Era un fiume di gente quello che rientrava in Italia, una schiera di derelitti, facce scavate, corpi magrissimi, militari che portavano ancora l’uniforme indossata il giorno della cattura. Ma nei volti di tutti stava tornando la speranza.
A Trento Gino e compagni con uno stratagemma riuscirono a prelevare (si fa per dire) un carretto da un convento di suore e poterono proseguire il viaggio liberi dagli zaini. Prima che a Verona il Gruppo si sciogliesse, il mezzo fu barattato con un secchio dì vino da un contadino.
Si fermò una camionetta con due militari americani che chiedevano informazioni per arrivare a Feltre. “Fatemi salire che vi porto io a Feltre”. Ma il viaggio fino a Treviso fu allucinante: i due yenkees erano ubriachi fradici e quello alla guida, oltre che spericolato, continuava a tracannare whisky. Gino ebbe il timore che non sarebbe mai arrivato a casa intero. E sarebbe stata una beffa dopo 20 mesi di prigionia da cui era uscito vivo. A Treviso trovò un altro passaggio fino a San vendemiano da dove proseguì verso casa a piedi.
Ci arrivò alle tre di notte a casa, mentre si faceva più assillante una domanda che per tutto il viaggio dalla Germania l’aveva tormentato. E quando, nel silenzio della notte, accostando l’orecchio all’uscio dell’entrata, sentì l’inconfondibile russare del vecchio padre, fu felice di saperlo ancora in vita. Si mise allora a lanciare sassi contro le imposte, e fu grande festa in casa Tonon. Ed il giorno dopo fu messo in pentola il gallo più grande del pollaio.
La memoria di Gino è sorprendente, perché è sorprendente come ricordi con precisione date ed orari, come se tutto fosse successo ieri. La salute è ottima (gli ultimi esami clinici sono perfetti), solo le gambe non sono più quelle dì una volta, quando, orgogliosissimo di essere alpino, non si perdeva né una manifestazione né una adunata. L’adunata più bella? Quella di Bari.
Gino si era fatto prima il fronte francese, poi Grecia ed Albania (era del 7° Alpini e ricorda il ponte di Perati e le difficoltà nell’attraversarlo per la presenza di cecchini nemici) poi ancora la Francia. Proprio a Mentone era stato sorpreso dall’8 settembre, e la fuga a piedi si era conclusa a Limone, dove veniva catturato dai tedeschi con tutto il suo reparto. Il viaggio fino al Brennero, effettuato su comodi vagoni passeggeri, era sembrato una gita di piacere. Gino ricorda che in certi tratti i macchinisti italiani rallentavano la corsa del treno per permettere a chi ne avesse il coraggio di lanciarsi fuori: ma i tedeschi sparavano. Al Brennero durante il rancio un tedesco disse che li stavano trasportando ad lnnsbruk per ucciderli tutti. Gino se la ricorda la reazione degli italiani: smisero di mangiare.
Poi il viaggio proseguì all’interno dei carri bestiame, quelli con la scritta “cavalli 8 uomini 40”, fino a Norimberga in un campo immenso di prigionia. Lì si mangiava benissimo, la carne faceva la sua comparsa mezzogiorno e sera, fino al giorno in cui i tedeschi chiesero se qualcuno voleva combattere volontario al loro fianco.
Pochissimi accettarono. Poi tutto cambiò e la carne sparì. Iniziò il duro lavoro nelle fabbriche tedesche regolato da una ferrea disciplina. Si mangiava poco, ma Gino ebbe la fortuna di andare a lavorare in un zuccherificio. Conosceva il tedesco, avendo lavorato nel ‘38 in Germania come stagionale, e poi diceva sempre di essere cuoco di professione. E cosi non patì mai la fame. La moglie ricorda che se ne era tornato dalla prigionia bello in carne meglio di quando era partito.
Naturalmente pensava anche ai suoi amici del campo meno fortunati impegnati altrove (la maggior parte lavorava a Norimberga in una immensa fabbrica di aerei dalla quale ogni giorno uscivano 30 velivoli) e non lasciava mai lo zuccherificio senza aver occultato un po’ di zucchero in apposite fodere dei pantaloni. Ma se lo scoprivano erano guai.
Gino si recava spesso nelle campagne per prelevare le bietole. In tali occasioni con le bietole mescolava qualche patata rubata alle zolle, che veniva poi cotta assieme e poi consumata a parte, tanto per interrompere la dieta dello zucchero. Fu una bella esperienza quella della raccolta delle bietole. Con grande stupore scoprì che i tedeschi mangiavano più volte nel corso della giornata. Le famiglie, come del resto ogni famiglia germanica di allora, contavano solo donne, vecchi e bambini, uomini non ce n’erano. Gino ebbe la sensazione di gente gentile e veramente molto buona. Elaborò così dentro di sé la teoria che fosse la divisa, quella maledetta divisa, una volta indossata, a far diventare cattivi i tedeschi.
Finita la guerra, dalla Germania Gino tornò a casa a piedi. Era un fiume di gente quello che rientrava in Italia, una schiera di derelitti, facce scavate, corpi magrissimi, militari che portavano ancora l’uniforme indossata il giorno della cattura. Ma nei volti di tutti stava tornando la speranza.
A Trento Gino e compagni con uno stratagemma riuscirono a prelevare (si fa per dire) un carretto da un convento di suore e poterono proseguire il viaggio liberi dagli zaini. Prima che a Verona il Gruppo si sciogliesse, il mezzo fu barattato con un secchio dì vino da un contadino.
Si fermò una camionetta con due militari americani che chiedevano informazioni per arrivare a Feltre. “Fatemi salire che vi porto io a Feltre”. Ma il viaggio fino a Treviso fu allucinante: i due yenkees erano ubriachi fradici e quello alla guida, oltre che spericolato, continuava a tracannare whisky. Gino ebbe il timore che non sarebbe mai arrivato a casa intero. E sarebbe stata una beffa dopo 20 mesi di prigionia da cui era uscito vivo. A Treviso trovò un altro passaggio fino a San vendemiano da dove proseguì verso casa a piedi.
Ci arrivò alle tre di notte a casa, mentre si faceva più assillante una domanda che per tutto il viaggio dalla Germania l’aveva tormentato. E quando, nel silenzio della notte, accostando l’orecchio all’uscio dell’entrata, sentì l’inconfondibile russare del vecchio padre, fu felice di saperlo ancora in vita. Si mise allora a lanciare sassi contro le imposte, e fu grande festa in casa Tonon. Ed il giorno dopo fu messo in pentola il gallo più grande del pollaio.
La memoria di Gino è sorprendente, perché è sorprendente come ricordi con precisione date ed orari, come se tutto fosse successo ieri. La salute è ottima (gli ultimi esami clinici sono perfetti), solo le gambe non sono più quelle dì una volta, quando, orgogliosissimo di essere alpino, non si perdeva né una manifestazione né una adunata. L’adunata più bella? Quella di Bari.
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