Internati militari italiani (IMI) - Associazione Nazionale Alpini Sezione di Conegliano

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Internati militari italiani (IMI)

Storia
Internati militari italiani (IMI)
Fiamme Verdi Luglio 2023 di Generale Antonino Inturri


La Resistenza dei prigionieri militari nei lager tedeschi
Premessa
600.000 soldati italiani, dopo l’8 settembre 1943, rifiutarono ogni proposta di arruolamento nelle forze armate nazifasciste, subendo così venti mesi di prigionia nei lager tedeschi e il duro regime dell’internamento, condannati alla fame, al freddo, alla brutalità, al lavoro coatto e, in decine di migliaia, alla morte. Solo negli anni ‘80 si ricominciò a parlare degli Internati Militari Italiani, a ricostruire la loro vicenda e a riconoscere l'importanza che ebbe il loro no a Hitler, al Mussolini della Repubblica Sociale Italiana, alla guerra.
Una pagina da conoscere e ricordare.

Prologo
La storia dei prigionieri di guerra italiani nella Seconda Guerra Mondiale ha un prima e un dopo. Prima e dopo l'8 settembre 1943. Nei primi tre anni di guerra sono centinaia di migliaia i soldati italiani catturati da inglesi, americani e russi. Ma dopo quel giorno le cose cambiano, radicalmente.
Il Regio Esercito si dissolve e i nemici diventano i tedeschi che ora ci considerano traditori. L’Esercito del Reich arriva preparato a questo momento. Nei giorni che seguono l'Armistizio, cattura più di un milione di soldati italiani sbandati e privi di ordini. La maggior parte di loro, quasi 700.000 persone, viene spedita nei lager di Polonia e Germania.
Ai soldati italiani viene tolto lo status di prigionieri di guerra e, privi di qualunque tutela giuridica, restano invisibili agli organismi internazionali come la Croce Rossa. Da questo momento diventano IMI, Internati Militari Italiani, Italienische Militärinternierte, destinati a lavorare per la macchina industriale tedesca, lavoratori schiavi al servizio del Reich costretti a vivere in condizioni disumane, spesso al di sotto della soglia di sopravvivenza. Saranno circa 40.000 quelli che non faranno ritorno a casa.
Eppure, dopo la guerra, il loro calvario ha subito una sorta di condanna all'oblio, dimenticato per decenni. Ma questo è il dopo. Torniamo al prima di questa storia, prima dell’Armistizio, quando i soldati italiani cadono prigionieri degli eserciti alleati.

Prima dell’8 settembre
Nel febbraio 1943, i soldati russi festeggiano la vittoria di Stalingrado. La 6^ Armata tedesca dopo settanta giorni di assedio si è arresa. L'offensiva, iniziata il 19 novembre 1942, aveva travolto successivamente la 3^ Armata romena, la 4^ Armata tedesca e l`8^ Armata italiana, l’ARMIR. L’Esercito Sovietico cattura migliaia di prigionieri che avvia in colonne interminabili verso le retrovie del fronte.
Nel maggio 1943, l'obiettivo si sposta dalla Russia sul Nordafrica. L’8 novembre 1942 gli Americani erano sbarcati sulle coste atlantiche del Marocco e, con gli Inglesi, sulle coste mediterranee dell’Algeria. Il crollo del fronte italo-tedesco in Africa Settentrionale provoca nuove decine di migliaia di prigionieri. La svolta è segnata dalla sconfitta delle forze italo-tedesche di Rommel nella grande battaglia di El Alamein, tra la fine di ottobre e i primi di novembre 1942, che le costringe ad abbandonare la Libia. Tentano di resistere in Tunisia, ma il 7 maggio 1943, cade Tunisi. Ai Comandi inglesi si pone con urgenza la necessità di organizzare, con continuità, i trasferimenti dei prigionieri in Paesi lontani dal fronte, in grado di fornire viveri per decine di migliaia di uomini con i prodotti dell'economia locale. Le prime mete sono Kenya, Sudafrica, Sudan, Palestina, India, Australia, territori dell'Impero inglese o di Paesi associati alla Corona Britannica.
L'esperienza della prigionia di guerra viene vissuta nel corso secondo conflitto mondiale da circa 1.400.000 soldati italiani e, di questi, si può che circa 600.000 hanno vissuto l'esperienza della prigionia di guerra degli Alleati prima dell'8 settembre 1943: 410.000 circa prigionieri degli inglesi, 125.000 circa degli americani, 37-40.000 circa dei francesi, tra i 10 e i 20.000 dei sovietici. A Biserta, in Tunisia, nel luglio del 1943, vengono sbarcati i prigionieri italiani catturati in Sicilia che, a migliaia, vengono internati nei campi anglo-americani in Nordafrica oppure trasferiti oltreoceano. Le condizioni di prigionia variano anche di molto, a seconda di quale sia la loro destinazione. Negli Stati Uniti ne vengono portati circa 50.000, quasi tutti catturati in Nordafrica e in Sicilia.
Anche dopo l'8 settembre, per via della diffidenza verso il Governo Badoglio, gli italiani continuano a rimanere prigionieri degli alleati. Ma in molti casi, per esempio negli Stati Uniti, viene data loro la possibilità di diventare cooperanti, di partecipare cioè allo sforzo bellico in attività non direttamente militari. Su circa 50.000 prigionieri, oltre 36.000 scelgono di cooperare con gli americani. Va meglio in Gran Bretagna, dove su 150.000 prigionieri l'adesione è quasi totale. La cooperazione con gli americani e gli inglesi dimostra quanto deboli radici avevano gettato negli animi degli italiani vent'anni di propaganda di regime e di costruzione del cosiddetto Uomo Nuovo fascista.


8 settembre 1943
Poche ore sono trascorse dalla dichiarazione dell'Armistizio ed è scattata l'”Operazione Asse (Achse)” che la Wermacht ha approntato già dal 25 luglio nella previsione che il Governo Badoglio non avrebbe tenuto fede all'impegno “la guerra continua!”.
L'”Operazione Asse” prevede, tra l’altro, la cattura e la deportazione dell'Esercito Italiano.
L'operazione di rastrellamento trova tutti i reparti egualmente impreparati. Anche i soldati italiani stanziati al di fuori dei confini d'Italia sono catturati in massa e internati nei lager del Reich. Nei Balcani, in Grecia, in Corsica, in Francia, 40 divisioni sono bloccate, disarmate e deportate. Il terrore tedesco innesca una spirale di violenza che porta a vere azioni di guerra. Molti dei militari italiani che si sottraggono alla cattura entrano nelle file della Resistenza, mettendo la loro competenza militare e il loro coraggio al servizio della lotta di liberazione. Una cosa simile accade anche all'estero, in Jugoslavia. Due Divisioni del Regio Esercito, la “Venezia” e la “Taurinense”, vengono sorprese dall'Armistizio in Montenegro. La scelta di non deporre le armi è quasi unanime. Nasce la Divisione Partigiana “Garibaldi” che viene inquadrata nei ranghi dell'Esercito di Liberazione Jugoslavo e combatte insieme ai partigiani jugoslavi, perdendo sul terreno più di 2000 uomini e guadagnando diverse medaglie al Valor Militare.
Ma per la maggior dei militari italiani di stanza all'estero, il destino sarà meno glorioso e decisamente più crudele come a Cefalonia e Treblinka.
A presidiare l'isola greca, al momento dell'Armistizio, ci sono circa 12.000 italiani, quasi tutti della Divisione Acqui, comandata dal Generale Antonio Gandin. Gli italiani rifiutano la resa e dopo giorni di combattimento, il 22 settembre, sono costretti a capitolare e a consegnarsi al nemico. Nel frattempo, è arrivato da Berlino un ordine perentorio firmato da Hitler. “Gli Italiani di Cefalonia sono dei ribelli, non fate prigionieri.”.
Da quel momento, i soldati e gli ufficiali italiani, compreso il generale Gandin, sono rastrellati e uccisi a sangue freddo, a colpi di mitra, nelle campagne dell'isola. Le cifre hanno oscillato dalle circa 9000 vittime dei primi conteggi alle circa 2000 di un più valido riconoscimento.
Il campo di sterminio di Treblinka, un villaggio nei dintorni di Varsavia, funzionò fino al settembre del ’43, quando i nazisti ne decisero la distruzione.
Su un binario morto c’è ancora un treno merci. Nell’ottobre del ’43, un ultimo trasporto giunse al campo di Treblinka: il “Treno degli Italiani”, come ancora lo chiamano. Likwidacja Wlochòw, Liquidazione degli Italiani. Questa è l'intestazione del rapporto numero 43/43 inviato l’8 novembre ’43 dall’Armata Krajowa, l’Esercito Clandestino di Liberazione della Polonia, al Governo polacco in esilio a Londra, dove si legge: “Il destino degli italiani è divenuto estremamente drammatico. Essi vengono uccisi assieme agli ebrei nei campi di sterminio di Belzec e di Treblinka... A Treblinka è stato trasportato un gruppo di soldati e ufficiali italiani in vagoni piombati sotto una forte scorta della Wermacht. Sono stati abbattuti davanti a questa fossa a raffiche di mitra. I loro corpi sono stati bruciati.”.

Italienische Militärinternierte. Internati Militari Italiani
Il Ministro degli Armamenti del Reich, Albert Speer, ha disposto che i soldati italiani siano utilizzati come forza lavoro. Lo status dei nostri prigionieri venne modificato, per ordine di Hitler il 20 settembre ’43. Nel foglio d’ordini firmato da Martin Bormann, sta scritto: “Per ordine del Fuhrer, i prigionieri di guerra italiani non vanno definiti prigionieri di guerra ma Internati Militari Italiani.”.
Al processo di Norimberga per i crimini di guerra, un testimone, Hans Kupke, dichiara: “Nell'ottobre- novembre del ‘43 vennero mandati al lavoro presso la Krupp di Essen i primi militari italiani. Erano in uno spaventoso stato di salute, alcuni con edemi da fame, cosicché avemmo molte difficoltà per renderli abili al lavoro. Un certo numero di uomini, comunque, morì”.
Questa distinzione fa sì che i 600.000 soldati italiani vengano esclusi dalle norme della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra e perdano in conseguenza ogni possibilità o speranza di soccorso esterno. Nei lager, si soffre la fame, il freddo, la fatica e le condizioni igieniche sono spaventose. Indeboliti nel corpo e nello spirito, i reclusi si ammalano con molta facilità. Oltre ai campi di prigionia per i lavoratori schiavi, il sistema concentrazionario prevede anche i lager lazzaretto (Lazarett), come li chiamano i tedeschi, dove vengono dirottati tutti i malati e gli inabili al lavoro. Le condizioni di vita qui sono, se possibile, anche peggiori. Siccome nessuno lavora, le razioni di cibo sono ulteriormente ridotte. Qualche medico c’è, ma mancano del tutto le medicine. Così per molti prigionieri, questi campi diventano l’anticamera della morte. In quello di Fullen, per esempio, nella Bassa Sassonia, muoiono 740 militari italiani.
Un altro lager lazzaretto è quello di Zeithain dove muoiono 900 italiani. Qui si fa rinchiudere come volontaria una suora della Croce Rossa, Vittoria Maria Zeme. Ammalatasi anch’essa, nel giugno del 1944 viene rimpatriata assieme ad altri reclusi con un treno che li porta a Verona. Nel frattempo, la propaganda fascista cerca di far proseliti. “Abbandonate le baracche dei campi di internamento!”, scrive nel numero del 24 ottobre ‘43 la Voce della Patria, un giornaletto che si stampa a Berlino a cura dell'Ambasciata della Repubblica di Salò e che viene affisso nei lager. La Voce della Patria reca la notizia della costituzione dell'Esercito Fascista Repubblicano e l'invito agli internati italiani di arruolarsi.
Dice il bando: “Aderisco all'idea repubblicana dell'Italia repubblicana fascista. E mi dichiaro volontariamente pronto a combattere con le armi nel costituendo nuovo Esercito italiano del Duce. Senza riserve. Anche sotto il comando tedesco.”.
Il 13 novembre Mussolini telefona a Keitel, il Capo dell'Alto Comando della Wermacht: “Mi sentirei disonorato se tra tanti internati non si trovassero 50.000 volontari per costituire quattro divisioni.”. In cambio dell'adesione, viene offerta l’immediata uscita dal campo.
Fino agli ultimi giorni di guerra, la possibilità di aderire rimarrà sempre aperta. Come la cassetta che materializza la grande tentazione dove si poteva imbucare la propria adesione. Jacek Wilczur, lo scrittore polacco che alla tragedia dei soldati italiani ha dedicato due libri dice: “I tedeschi, nei confronti dei prigionieri italiani, seguivano la formula della “morte a dosi” che veniva applicata ai non aderenti. Consisteva nel diminuire ogni giorno le razioni: pane, zuppa e patate. Ogni giorno un po’ di meno. Questo per prolungare l'agonia e anche perché i prigionieri avessero il tempo di riflettere meglio e decidere e infine di cedere.”.
Molti, avviati coattivamente al lavoro, insistono nel loro rifiuto e per punizione vengono trasferiti nei lager amministrati dalle SS eufemisticamente denominati campi di rieducazione al lavoro o campi di disciplina. 5000 soldati finiscono in uno dei campi di Buchenwald, il KL Dora Buchenwald.
Appena entrati nel Campo Dora, le SS chiamano i prigionieri “Badoglios” e vengono accolti a bastonate. Poi, basta una mancanza di nulla per ricevere percosse e nerbate.
Spogliati della divisa militare e vestiti di casacca e pantaloni di tela a strisce, i soldati italiani vanno a lavorare in gallerie scavate dentro la montagna, nelle quali si provvede al montaggio della V1 e della V2. Da Dora sopravvivono in 400.
La grandissima parte dei soldati italiani che vengono catturati dai tedeschi dopo l'8 settembre, quindi parliamo di almeno 650.000 uomini, deciderà di non accogliere l'invito ad arruolarsi nei reparti della Repubblica Sociale di Salò.
Lo storico Luca Baldissara conferma come quella degli IMI sia stata una forma di resistenza alla guerra, cioè un rifiuto netto e consapevole di proseguire la guerra al fianco dell'alleato tedesco perché si sapeva che la Repubblica Sociale avrebbe continuato a combattere al suo fianco.
A dire no ai tedeschi e ai fascisti ci sono anche diversi italiani che diventeranno celebri nel dopo guerra. Lo scrittore Mario Rigoni Stern, lo sceneggiatore Tonino Guerra, gli attori Raffaele Pisu e Gianrico Tedeschi, lo scrittore Giovannino Guareschi, il giovane ufficiale Alessandro Natta. Il no dei militari italiani, il loro gesto di opposizione, seppure disarmata, è una pagina della Resistenza da mettere accanto alla lotta di liberazione partigiana. La loro storia dimostra poi quanto scarso fosse, tra gli italiani, il sostegno al neofascismo di Salò o la volontà di combattere ancora al fianco di Hitler e della Germania nazista.

I liberi lavoratori
Per la prima volta dopo la costituzione del suo governo repubblicano, il 20 maggio 1944, Mussolini incontra Hitler nel castello di Klessheim a Salisburgo. Fra i temi del colloquio, ricorre più volte quello degli internati. Il Duce si dichiara lieto che i 600.000 soldati italiani restino nelle mani dei tedeschi. “È consigliabile e necessario”, dice “che essi non tornino in Italia per evitare che spargano ulteriore malcontento tra la popolazione”.
Mussolini suggerisce di sfruttare in pieno il potenziale lavorativo degli internati militari dopo averne migliorata la situazione materiale. “Il problema degli internati militari è risolto”, anticipa la Voce della Patria.
Il 3 agosto, i prigionieri di guerra in Germania vengono quindi trasformati in “liberi lavoratori”, ma in realtà restano prigionieri anche se la vigilanza anziché essere militare, della Wermacht o delle SS, è formata dalla Volksturm, dalla Difesa Civile. I “liberi lavoratori” hanno ritmi di lavoro massacranti, dalle 4:30 fino alle 22:00, ogni giorno. I cancelli del campo, però, rimangono aperti. Soltanto che alle 20:00 scatta il coprifuoco.
Eccola, la libertà: poter vedere aperto quel cancello. Molti rifiutano il passaggio a lavoratori civili e vengono inviati nei Straflager o campi di disciplina amministrati dalle SS, come quello, durissimo, di Unterlüss.
Gli ultimi mesi di guerra per gli internati dei lager sono i più duri. L’inverno del ‘45 è freddissimo e l’avanzata dell’esercito russo costringe i tedeschi a sgombrare i campi più a est, sottoponendo i prigionieri a durissimi trasferimenti forzati a piedi nella neve anche per centinaia di chilometri. È quello che capita a oltre 200 Generali italiani detenuti nel lager 64Z di Schokken in Polonia per non essersi voluti piegare al nazifascismo al momento dello sbando dell'Esercito Italiano. Suddivisi in piccoli gruppi, iniziano quella che per alcuni di loro sarà una marcia della morte.

La fine della guerra. Il rientro
Il 30 Aprile 1945, Hitler, chiuso nel suo bunker, si suicida.
Due giorni dopo, i soldati russi entrano a Berlino. La guerra in Europa è finita e per i prigionieri italiani si prepara il rientro in Patria.
I primi rientri dei prigionieri italiani dai lager tedeschi iniziano nell'estate 1945. Il viaggio in treno termina a Pescantina, nei pressi di Verona, dove è stato stabilito un grande luogo di raccolta dei reduci dalla prigionia.
Come illustra ancora lo storico Luca Baldissara, la gran parte degli internati militari italiani è rientrata in Patria entro il 1945. Ma benché nel novembre 1945 agli Internati Militari Italiani venga riconosciuto dal Governo Italiano lo status di prigioniero di guerra, questi avranno delle grosse difficoltà a vedere riconosciuti da parte del Ministero delle Finanze i benefici fiscali e i trattamenti previdenziali connessi con la loro condizione. Questo fa sì che il loro sia un ritorno in Patria molto duro non solo dal punto di vista delle condizioni materiali, ma anche dal punto di vista psicologico ed emotivo. L’Italia che ritrovano è una nazione distrutta, alle prese con i problemi quotidiani della sopravvivenza.
Gli italiani li accolgono con insufficiente attenzione. Ormai tutti pensano solo a dimenticare la guerra e le sue sofferenze. Così, per gli internati militari il ritorno è difficile, deludente, amaro e molti scelgono il silenzio. A contribuire a questo oblio c'è anche il mutato clima internazionale, quello della Guerra Fredda, che suggerisce di non accanirsi più di tanto contro i crimini di guerra della Germania diventata ora un nuovo e prezioso alleato. Così, per almeno quarant'anni, la vicenda degli Internati Militari Italiani è stata pressoché dimenticata, espulsa dalla memoria collettiva del nostro Paese.

Conclusioni
Durante l'internamento, i militari italiani vengono incessantemente invitati, in cambio della liberazione, ad arruolarsi nelle forze armate tedesche e soprattutto nelle forze armate della Repubblica Sociale Italiana. La stragrande maggioranza degli internati rifiuta, dando vita a una forma di Resistenza “disarmata” o “passiva”. Molti si oppongono a qualsiasi tipo di collaborazione, tutti si rassegnano alle tragiche condizioni di vita dei lager. La “resistenza senz’armi” degli internati militari italiani rappresenta una pagina luminosa della Seconda Guerra Mondiale, che mitiga la grande amarezza di quel triste periodo. Una resistenza che trovò il suo punto di forza principale nel giuramento di fedeltà alla Patria. Una resistenza che, dopo lo sbandamento dell’8 settembre, valse a dimostrare che il soldato italiano sapeva portare con onore l’uniforme anche in prigionia, pur se al prezzo di pesantissimi sacrifici. Una resistenza che ancora oggi è una testimonianza di fede, una prova di dignità: questi uomini sentirono che la loro Patria non era morta e, perciò, decisero di combattere per la sua libertà.

Generale Antonino Inturri
Fonti:
● RAI Storia – “Gli Internati Militari Italiani” con la consulenza storica di: Lutz Klinkhammer, Nicola Labanca, Giovanni Sabbatucci, Luca Baldissara
● “Prigionieri – I soldati italiani nei campi di concentramento 1940-1947” di Massimo Sani, 1987
● “Tragico e glorioso `43 – Seicentomila volte no: la deportazione dell’Esercito Italiano” di Sergio Valentini, 1973
● G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich. 1943-1945.
● Traditi – disprezzati – dimenticati, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, 1997
● Jacek Wilczur – “Le tombe dell'Armir”, Oscar Mondadori, 1987
● Lorenzo Baratter – “Gli internati militari italiani dal 1943-'45” - Bolzano, 2007
● Alfonso Beninatto – “Duri come rocce” – Quaderni di storia e cultura bredese IX diretti da Sandra Fedrigo e Alfonso Beninatto – Biblioteca Comunale di Breda di Piave - Aprile 2006
● I militari italiani negli Oflag e negli Stalag del Terzo Reich di Sabrina Frontera
● www.esercito.difesa.it

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