Pino Zambon
PINO ZAMBON
Fiamme Verdi Dicembre 1996
CULLATO DALLA DOLCE NENIA CHE SALIVA DALLE ROTAIE...
L’odissea nel gelo della steppa russa di Pino Zambon, salvato dal mulo, da una coperta e da una bàbuska dal cuore d’oro.
Quella mattina d’agosto Udine era inondata dal sole. Mano a mano che la colonna grigioverde si avviava alla stazione si andava infittendo sui marciapiedi una folla multiforme e composta i cui sentimenti erano ora di entusiasmo, ora di pena.
Dopo mesi di marce sul fango e tra i sassi facevano uno strano effetto gli zoccoli dei muli sull’asfalto liscio. Pareva l’interminabile concerto di un’orchestra di mille xilofoni.
Le lacrime di qualche mamma cadevano silenziose e subito scomparivano, disperse nel frenetico brulichio di gente che intralciava l’andirivieni di soldati e ufficiali.
Quando le operazioni di caricamento furono completate, in fianco alla lunga tradotta si formarono capannelli con al centro un giovane alpino oggetto di attenzioni materne:«Tienti coperto, mi raccomando...».
Pino Zambon non aveva nessuno a raccomandargli di tenersi coperto e riguardato. Ancora fanciullo aveva perso il padre e la madre, e la morosa l’aveva salutata l’ultima licenza.
Pino Zambon, classe 1914, quando nell’aprile del ‘35 era stato chiamato sotto naia, aveva scoperto che il suo vero nome era Alfredo. A San Fior da sempre nomi e cognomi d’arte si sprecano e lui si era divertito a presentarsi come Pino Martinon, irritando il maggiore del distretto che “per punizione” l’aveva destinato ai muli della 13^ batteria del gruppo Conegliano di Osoppo. Ma Pino non aveva avuto il tempo di vedersela con muli ed obici: macellaio di professione, era stato destinato alla cucina del circolo ufficiali. Nel dicembre del ‘35 aveva poi preso parte alla campagna d’Africa. Ritornato nel ‘40 era stato richiamato alla fine ‘41 ed ora, con il reparto salmerie del 3^ Artiglieria da Montagna, partiva per la terra di Russia a compiere quella che la propaganda aveva descritto come una improrogabile formalità, e cioè “l’annientamento dell’Unione Sovietica e l’eliminazione del bolscevismo”.
L’interminabile fila di vagoni si mosse sferragliando e, dopo un ultimo sussulto, la stazione piombò nel silenzio.
Oltre Tarvisio, il paesaggio cambiò. Attraverso le ampie aperture dei carri bestiame gli alpini godevano la vista di torrenti, di prati verdi, di paesi ordinati attorno a leggiadri campanili. Austria, Cecoslovacchia, Polonia, grandi città e minuscoli villaggi. E dopo una settimana la Russia.
Il treno percorreva una campagna ora piatta ora leggermente ondulata, con campi di girasoli immensi di cui l’occhio non riusciva a vedere la fine, senza case, alberi o uomini. Poi improvvisamente qualche villaggio di casupole che svanivano subito dietro la vastità di altre distese di girasoli che si alternavano a campi incolti dove la vista non riusciva a trovare punti d’appoggio nell’orizzonte senza limiti.
La tradotta finì la sua corsa a Jsjum, villaggio al centro di un’infinita pianura.
Nelle operazioni di scarico il cavallo del capitano si ruppe una zampa. Toccò a Pino abbattere e macellare la povera bestia, che finì nelle marmitte del reparto. E così, dopo una settimana di gallette secche e carne in scatola, per i conducenti furono due giorni di spezzatino. Il filetto però, dirottato dalla cucina del reparto, era stato consumato in una sontuosa cena tra pochi intimi.
A Jsjum ci fu il primo contatto con la popolazione russa, che subito si mostrò molto ben disposta nei confronti degli alpini. Fu questa la prima sorpresa: ad accogliere gli invasori nemici c’erano bambini chiassosi e festanti che chiedevano qualche galletta, donne che fraternizzavano e dimostravano la loro simpatia invitando gli alpini nelle loro umili isbe, vecchi che si intrattenevano chiedevano notizie sull’Italia.
Iniziò la marcia di avvicinamento al Don, dove la divisione Julia era schierata su un fronte di alcuni chilometri. Furono dieci giorni interminabili, sotto un sole opprimente. Durante le soste era assolutamente proibito appropriarsi di qualcosa che appartenesse alla popolazione, ma i cocomeri e la frutta fresca di cui abbondavano gli orti erano una tentazione a cui nessuno sapeva resistere. Un giorno la colonna si imbatté in una mucca e, dopo un breve consulto, i conducenti stabilirono che la povera bestia si era persa nella vastità della steppa e non avrebbe mai ritrovato la via del ritorno. Con il consenso del capitano ci fu così ancora una volta lavoro straordinario per Pino Zambon. Scuoiato e squartato, l’animale fece la fine del cavallo del capitano. Anche in tale occasione ci fu, per gli amici, una cena speciale a base di filetto alla brace.
Il reparto si stabilì a Popowka, nei pressi di Rossosch. I muli erano ricoverati in una grande stalla, mentre i conducenti vivevano in alcune isbe. La bàbuska russa, presso cui era alloggiato, trattava Pino maternamente, gli preparava pasti caldi e, per manifestargli la propria simpatia, gli aveva confezionato un passamontagna di pelle di capra ed agnello, impenetrabile al freddo.
Il compito del reparto salmerie era quello di provvedere al trasporto di viveri e materiali dalla stazione di Rossosch al grande magazzino che serviva tutta la divisione, e di rifornire le batterie del fronte. Con l’arrivo della neve, infatti, l’unico mezzo di trasporto erano le slitte trainate dai muli.
Quando non erano impegnati, i conducenti passavano il tempo a fare brusca e striglia ed a lucidare i finimenti. Gigi, il mulo di Pino, era il più piccolo tra quelli in forza al reparto, ma il suo quoziente di testardaggine era superiore alla media. Era uno di quei muli che fanno il loro servizio solo se trovano un conducente che li sa capire e rispettare; e sotto la guida di Pino, Gigi era diventato docile ed affidabile.
La guerra? Ogni tanto si avvertiva qualche rombo di katiuscia, al di là del Don. Ma il nemico era invisibile e la guerra lontana. I viveri giungevano regolarmente ed in abbondanza e si preparavano tutti a trascorrere un tranquillo Natale.
Ma non durò a lungo. La sera del 24 dicembre 1942 una colonna del reparto salmerie era diretta al magazzino di Rossosch. La bianca distesa di neve sotto un cielo luminosissimo ed uno strano silenzio rendevano quella notte, la notte santa, ancor più struggente. Improvvisamente fu un inferno di fuoco: fiamme altissime si levarono dal magazzino, centrato dagli aerei russi; una pioggia di schegge aveva investito anche i conducenti, molti dei quali perdevano sangue. Per soccorrere i feriti gli alpini ripararono in una chiesa che era stata adibita a magazzino per granaglie.
Pino stava ormai pensando di passare la notte di quel Natale in una chiesa. Ma un reparto di militari tedeschi entrò nell’edificio per passarvi la notte, intimando agli Italiani di uscire. Alle proteste del sergente, i tedeschi accompagnarono una risata con un insulto:«sheisse italianen». Fu questo il primo ed unico incontro con i soldati germanici.
Quel giorno tutti capirono che la pacchia era finita.
Pochi giorni dopo arrivò, improvviso, l’ordine di ritirata.
Una lunga colonna grigioverde partì quando ormai era buio, puntando verso ovest.
Gli uomini procedevano affannosamente nella steppa cristallizzata dal gelo stando curvi in avanti per ripararsi il più possibile dal vento. La luna s’affacciava ogni tanto e scompariva, lasciando nella penombra la colonna che procedeva lenta. Si percepiva lo sbuffare dei muli ed il cigolare delle slitte. Così tutta la notte, ed il giorno dopo, ed un’altra notte ancora, perché, per uscire dall’accerchiamento dei russi, bisognava non fermarsi. Ed intanto la steppa era dominio della tormenta, e turbinii rabbiosi levavano vortici di neve sugli alpini in ritirata.
All’alba, raffiche improvvise di mitraglia, provenienti da tiratori invisibili appostati su una collina, seminarono il panico nella colonna, divenuta facile bersaglio. I muli imbizzarriti dal fragore e dal trambusto, partirono, lanciandosi al galoppo e trascinando le slitte, mentre il loro carico si rovesciava travolgendo gli uomini. In questa fuga disordinata ognuno prese una sua direzione, e la colonna si disgregò. Pino si trovò sulla slitta trainata da Gigi al galoppo senza sosta verso il biancore della steppa, spronandolo ed incitandolo con quanta forza aveva in corpo. Dopo una corsa interminabile, scoprì di essere solo nella bianca vastità della pianura. Ora incominciava la sua guerra, quella che da solo avrebbe dovuto combattere nell’inferno bianco di quella terra sconosciuta per portare a casa la pelle.
Stremato dalla lunga galoppata, Gigi stramazzò a terra. Pino tentò di rialzarlo ma, al contatto con il gelo, il povero animale si era irrigidito. Lo accarezzò amorevolmente, avvolse la grande coperta bianca del mulo attorno allo zaino e, adoperando il fucile 91 come bastone, si incamminò nella neve senza più voltarsi, perché in quella tragedia non era concesso cedere alle emozioni.
Non sapeva quale fosse la via giusta, ma riuscì ben presto ad intuirla, seguendo la direzione di una squadriglia di stukas tedeschi che si dirigevano verso il Don.
La prima notte fu allucinante: nel silenzio lugubre ed abissale di quel mare di ghiaccio, dove si rifletteva un cielo luminosissimo, Pino pensava se avrebbe più rivisto la Maria, i suoi fratelli, il paese. Pensava a quale poteva essere stata la sorte dei suoi commilitoni, degli amici conducenti con cui aveva condiviso il filetto alla brace quando la guerra sembrava ancora lontana. Il suo pensiero andava a Gigi, che lo aveva ricambiato in una sola volta di tutte le sue amorevolezze portandolo fuori dal bersaglio dei cecchini russi.
Camminò per giorni e giorni in mezzo alla tormenta, con il freddo che in quel terribile inverno scese nella bianca pianura anche sotto i meno quaranta.
Di notte si fermava in qualche magazzino abbandonato, avvolgendosi nella coperta di spessa lana. Se non trovava ricovero, camminava anche di notte, sotto quel mare di stelle che, a poco a poco, aveva imparato a leggere per orientarsi. E nel buio camminare voleva dire essere vivo, fermarsi avrebbe significato morire.
A momenti di calma effimera si succedevano improvvise e violente raffiche di neve e vento che facevano viaggiare la neve quasi orizzontale ed a velocità vertiginosa.
Il passamontagna, che gli aveva regalato l’anziana donna di Popowka, si dimostrò provvidenziale per difendere il viso dalla tormenta; lo zaino e la divisa grigioverde erano induriti da due dita di neve ghiacciata ed i piedi cominciavano ad essere divorati dal gelo. Infatti, gli scarponcelli di cuoio scadente erano divenuti di legno e la suola, fitta di chiodi, trasmetteva ottimamente la temperatura esterna alla pianta del piede.
Per evitare spiacevoli incontri se ne stava alla larga dai villaggi ed evitava le piste battute. Ma camminare nella neve farinosa era molto faticoso e spesso il suo progredire assomigliava ad una affannosa nuotata. Più di una volta, per non rimanere sorpreso dai piccoli ricognitori aerei Russi, si distese sotto la bianca coperta che lo mimetizzava perfettamente nella neve.
La fame cominciava a farsi sentire, perché le scatolette che portava nello zaino si stavano esaurendo. Nella tormenta non era poi conveniente esporre le mani al gelo per consumare una galletta dura come la pietra.
Un giorno, nel pieno di una grigia bufera di neve, Pino ebbe la sensazione di essere braccato da un’ombra che lo seguiva a distanza. Era un uomo in grigioverde che, come lui, vagava nella steppa: il suo aspetto era penoso, sopracciglia, barba e baffi incrostati di ghiaccio.
Proseguirono il viaggio assieme, senza parlare; e, quando sulla pianura calò la notte gelida, i due ripararono in una stalla abbandonata dove riuscirono ad accendere un piccolo fuoco ed a sgelare l’ultima scatoletta di carne. Nella grande tristezza non ebbero nemmeno la voglia di scambiarsi il loro nome ed il reparto di provenienza.
La sera dopo, la fame li spinse verso un villaggio che appariva stranamente silenzioso. Si avvicinarono guardinghi ad un’isba un po’ isolata.
Li accolse una bàbuska russa dallo sguardo amorevole e triste che, come li vide, capì subito di cosa avevano bisogno. Ma, mentre questa si apprestava a rifocillarli, nella stanza entrò una giovane donna, urlando che stavano arrivando i partigiani.
Con una mossa fulminea l’anziana russa lanciò gli zaini nella legnaia sotto la stufa di pietra, mentre Pino, saltata la finestra che dava nel retro dell’isba, si nascose nella dispensa esterna sotterranea dove erano conservati cavoli e cetrioli in salamoia. Qui rimase col cuore in gola per tutta la notte.
Il giorno dopo, Pino poté assaporare un pasto caldo ed abbondante di patate, che, dopo giorni di carne gelida, trovò deliziose. La bàbuska gli massaggiò i piedi con neve e grasso, fermando il congelamento che stava divorando le dita, e gli rifece le scarpe con pezzi di pastrano e stracci legati con spago e fil di ferro.
Quando fu buio riprese la marcia in solitudine, senza saper nulla del compagno di viaggio che la sera prima era stato prelevato dai partigiani penetrati nell’isba. Baciò le mani della anziana donna dal cuore d’oro che gli aveva riempito lo zaino di patate cotte, mentre questa, con un gesto preciso, gli indicava con sicurezza quale era la direzione da seguire.
La Storia ci racconta che la crudezza della guerra non ha mai impedito il fiorire di episodi di nobile umanità. Ma nella grande cordialità e generosità dei contadini russi, che nascondevano gli “infami nemici invasori” italiani per sottrarli ai partigiani ed aiutarli a fuggire, c’è qualcosa di paradossale.
Una spiegazione potrebbe essere cercata in ciò che disse un anziano russo ad un alpino che proprio in quei giorni, come Pino, peregrinava nella steppa cercando la salvezza: «Vas Mussolinia diu ras srtiglliaiu, Hitler dua ras, Stalin tri ras nequati» (Una sola volta basta ammazzare Mussolini, Hitler occorre ammazzarlo due volte, Stalin ammazzarlo tre volte non basta).
Dopo alcuni giorni Pino si accodò ad una colonna di Romeni in ritirata, standosene sempre a ragguardevole distanza. Era la marcia disordinata di un fiume nerastro in mezzo alla neve. L’equipaggiamento dei soldati era del tutto inadeguato e molti erano i congelati che si trascinavano con estrema difficoltà.
Una mattina arrivarono improvvisi aerei nemici a bassa quota, che sorvolarono a più riprese la colonna, sganciando bombe e mitragliando, seminando la morte tra gli uomini che inciampavano nella disperata corsa sulla neve.
Pino proseguì assieme ai sopravvissuti, non prima di aver cercato qualche galletta negli zaini abbandonati accanto a camion sventrati e corpi lacerati e sanguinanti.
E quando ormai stava per arrendersi, vinto dalla spossatezza, ed i piedi inciampavano, privi di sensibilità, essendo diventati ormai pezzi di ghiaccio sospinti solo dalla disperazione, un giorno comparve una villaggio dove, al di sopra dei tetti, pennacchi di fumo si alzavano nel cielo terso e freddissimo. Era la fine di un incubo, diciotto giorno dopo quel 16 gennaio in cui era stato dato l’ordine di ritirata.
Salire sulla tradotta che portava in salvo feriti e congelati non fu facile, perché i vagoni non erano sufficienti a contenere tutta quell’umanità derelitta. Quando il treno si mosse, Pino si lascio cullare dalla nenia che saliva dalle rotaie; lo scorrere fluente delle ruote sui binari, ritmato da rimbalzi sonori ad ogni ricongiunzione di rotaie, era musica per le sue orecchie.
Era per sentire quella musica che non aveva ceduto, che non aveva voluto rinunciare ad andare avanti, anche quando camminare era impossibile, anche quando nell’orrida steppa perfino il respiro gelava, ricadendo nel cappotto; era per quella musica che aveva preferito l’ossessionante marciare nonostante la fame, il sonno ed il gelo che straziava le dita dei piedi.
Oggi Pino Zambon è un uomo che, avendo partecipato alla campagna d’Africa e di Russia, sa quanto sia grande il bene della pace. A ricordo di quella lunga “passeggiata” in mezzo all’inferno bianco ci sono due dita di un piede in meno e quella bianca coperta bianca da cui non si è mai voluto separare.
Malgrado il tempo trascorso, un paesaggio innevato o un coro alpino fanno affiorare in lui immagini nitide, precise ed indelebili: il biancore della steppa, i silenzi immensi, rotti dallo stridere della neve sotto i piedi, e quelle stelle che sembravano scintille nel grande cielo di Russia.
Gianfranco Dal Mas